Di Massimiliano Panarari
Decostruzione di un (gigantesco) evento sportivo. Dietro la festa e
l’agonismo olimpico, sin dagli esordi, si muovono interessi di natura
economica (e, fin qui, nulla di strano, si potrebbe dire), ma anche, in
maniera eminente, la politica. Lo racconta, alla vigilia delle imminenti
Olimpiadi 2012 di Londra, il libro di un giovane studioso specializzato
in storia dello sport, Nicola Sbetti, che nel suo Giochi di potere (Le
Monnier-Mondadori, pp. 304, € 21,50; prefazione di Sergio Giuntini),
effettua un’interessante e dettagliata ricostruzione degli intrecci tra
relazioni internazionali, politica di potenza e diplomazia sportiva
dalla prima edizione (Atene 1896) sino ai nostri giorni.
Anzi,
secondo lo storico, il sistema delle Olimpiadi è, da molti punti di
vista e in maniera quasi quintessenziale, lo specchio della politica,
dal momento che concorre a rappresentare - e a proiettare
nell’immaginario collettivo delle varie opinioni pubbliche - l’idea di
una serie di Stati in competizione (in questo caso pacifica) tra loro,
rafforzando così il meccanismo dell’identificazione con la propria
nazione, secondo quella dicotomia che, ci hanno detto in molti, fonda la
politica. Ovvero, la coppia «amico/nemico», che, nella fattispecie (e
per fortuna), si converte in avversario sportivo. Insomma, «noi» vs.
«loro»: ed ecco che la geopolitica olimpica finisce per riflettere
esemplarmente quella politica, e per certificare l’esistenza sul
palcoscenico della comunità internazionale, per cui se una nazione non
viene ammessa a gareggiare non conta granché (oppure è fatta oggetto di
boicottaggio e ostracismo).
Le Olimpiadi estive moderne risorgono,
a fine XIX secolo, all’insegna dell’idea di trovare la sintesi fra tre
paradigmi culturali assai diversi tra loro: la «filosofia» dello sport
praticata dalla borghesia anglosassone, quella europeo-continentale
(egemonizzata dalla Germania) della ginnastica (con annesse tendenze
patriottiche e militariste) e l’ispirazione «pacifista» e interclassista
delle dottrine pedagogiche del (successivamente famosissimo) barone
francese Pierre de Coubertin.
Tenerle insieme richiedeva, in
effetti, un miracolo, il che spiega, nei primi tempi (e sostanzialmente
fino all’edizione londinese del 1908) anche la fatica dei Giochi
olimpici a trovare spazio e identità, tanto da ridursi, di fatto, ad
appendici sportive dei vari concomitanti Expo, tipiche espressioni
dell’esuberante fiducia nel progresso di quella scoppiettante Belle
Epoque positivista. Che aveva anche, come noto, un orrido dark side
antropologico, dal quale discese, nell’ambito dei Giochi di Saint Louis
del 1904, la decisione di riservare - alla faccia dell’universalismo
decoubertiniano e dello spirito olimpico - gare separate a tutti gli
appartenenti alle «etnie inferiori», dai nativi americani ai «sangue
misto».
All’indomani della prima guerra mondiale, i Giochi
olimpici si rivelarono anche - l’eterogenesi dei fini… - inevitabili
compagni di strada di nazionalismi e ideologie, e una loro grancassa
propagandistica. L’apice si raggiunse con Berlino 1936, sotto l’egida (e
la regia) del nazismo; e la sagra olimpica del totalitarismo
nazifascista, se non fosse esploso il conflitto, sarebbe pure proseguita
nel ’40 a Tokyo, mentre Roma si era prenotata per i Giochi del ’44.
Abbattute
le dittature (ed escluse Germania e Giappone da Londra 1948, a cui
viene invece ammessa l’Italia, in virtù del combinato disposto del
consolidamento del nostro ancoraggio al blocco atlantico e del «riscatto
morale» garantito dalla Resistenza antifascista), con Helsinki ’52 le
Olimpiadi si trasformano nel palcoscenico sportivo della Guerra fredda.
E, così, passando, via via, per Città del Messico ’68 (l’edizione
dell’antagonismo tra Black Panthers e contestazione studentesca), Monaco
di Baviera ’72 (con la strage terroristica degli atleti israeliani),
Montréal ’76 (la prima delle Olimpiadi del boicottaggio), fino al crollo
del Muro di Berlino e alle competizioni vetrina della globalizzazione
(e trionfo di marketing e commercializzazione, come l’«Olimpiade-Coca
Cola» di Atlanta del ‘96), i tornanti fondamentali della politica del
Secolo breve possono venire tutti (e integralmente) letti mediante le
lenti (o, meglio, i cerchi) dei Giochi.
Inclusa Pechino 2008,
quando le proteste a favore del Tibet sono ben presto rientrate al
cospetto dell’influenza del gigante asiatico sull’economia mondiale. E
compresa Atene 2004, prefigurazione, se si pensa alla corruzione e agli
sprechi di cui è stata teatro, della tragedia sociale e finanziaria
della Grecia odierna. Una «legge» valida per quelle realizzate, ma anche
per quelle mancate, come dimostra la rinuncia di Mario Monti alla
candidatura italiana per il 2020 di fronte al rischio di
un’«Olimpiade-spread».
Fonte:la Stampa
http://www.radicali.it/rassegna-stampa/olimpiadi-prosecuzione-della-politica-con-altri-mezzi
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