DI Salvatore Antonaci
La supercorazzata europea, sempre più appesantita dalle
enormi falle finanziarie nel proprio scafo si avvia verso un mesto
destino nonostante l’affannarsi del ponte di comando. Facile
anzi che disposizioni contraddittorie urlate a voci sconnesse possano
accelerare anziché procrastinare il naufragio. In questo quadro a tinte
fosche l’Inghilterra, terra d’elezione di marinai e corsari, cerca
disperatamente di sottrarsi all’ineluttabile. I tentativi, a dire il
vero, sono ancora abbastanza timidi, ma la convinzione che serva
recidere il cordone che mantiene unita Albione al continente si rafforza
di giorno in giorno nell’opinione pubblica.
David Cameron, Premier da due anni a capo di una coalizione
dei suoi Tories con i Liberal-democratici, ondeggia tra l’intransigenza
degli scettici duri e puri e la disponibilità al compromesso delle
colombe. Una situazione difficilmente sostenibile per lungo
tempo pena un logoramento governativo e, cosa assai più grave, di un
ulteriore aggravamento della congiuntura economica. I fondamentali di
Londra non sono eccellenti: il deficit non è poi così lontano dal 10%,
cifra al livello da PIIGS e non sostenibile se il rapporto debito-PIL
fosse peggiore dell’attuale. Avendo rifiutato di finanziare il
famigerato MES, lo scudo europeo antispread, i britannici si trovano ,
comunque, nell’obbligo, da membri componenti dell’UE, di onorare
adempimenti finanziari di notevole peso nei confronti del carrozzone
unico di Bruxelles oltreché ad adeguare tutta una serie di standard e
norme giuridiche capaci di incidere nella loro quotidianità, esempio
banale la modifica del tradizionale sistema di pesi e misure sostituito,
ope legis, dall’obbligo di utilizzare quello decimale normalmente in
uso altrove.
Facile intuire che per questi motivi e soprattutto per il
timor panico di dover abdicare al radicato sentimento di autonomia,
difeso per mare e per aria nel corso dei secoli, il discredito del
progetto europeo abbia fatto breccia vieppiù negli ultimi anni.
A partire dagli anni ’90 la politica organizzata ha visto addirittura
la nascita di diversi partiti focalizzati su questa unica issue: evitare
la sottomissione ad un superstato a guida franco-tedesca molto più
simile ad un impero del passato o ad una moderna unione sovietica che a
un semplice spazio comune di pacifica cooperazione e libero scambio
economico. A fare la parte del leone in questa rinascita di orgoglio ed
egoismo nazionale è senz’altro l’UKIP (Partito per l’Indipendenza del
Regno Unito) guidato dal carismatico Nigel Farage. Marginale per diversi
anni e capaci di grandi score solo nelle elezioni per l’europarlamento
(abilmente utilizzato per offrire cassa di risonanza alle istanze
radicali del movimento), gli indipendentisti sentono arrivare il momento
della loro grande occasione: i meeting organizzati per le città e le
campagne registrano il pienone ovunque ed i sondaggi elettorali
testimoniano un’ascesa importante ad incalzare i Libdems e persino ad
insidiare una parte dell’elettorato conservatore.
Ad amplificare la portata di questo terremoto in uno dei più
stabili sistemi partitici del globo sicuramente vi è la campagna
“grassroot” (di base, mutuando termine in voga oltre atlantico) di
migliaia di cittadini trasversali ai partiti che hanno deciso di
riprendersi in mano la “sovranità popolare” chiedendo a gran voce al
governo di consentire la tenuta di un grande referendum dirimente, una
volta per tutte, il nodo gordiano della partnership inglese nell’Unione
Europea. L’input per questa sorta di tea – party all’inglese è
partita da un giornale conservatore il “Daily Express” capace di
raccogliere in breve tempo oltre mezzo milione di firme su una petizione
pro referendaria. Da quel momento l’ ondata di piena è divenuta quasi
inarrestabile: altri quotidiani importanti come il Telegraph ed il
tabloid “The Sun” hanno sposato la causa e la questione è divenuta di
pubblico dominio anche nella stampa televisiva, di solito molto più
vicina ai desiderata dell’establishment.
La verità è che anche importanti pezzi di società finora
titubanti come la business community londinese sembra propensa ad
accettare la sfida disgustata dalle regolamentazioni sempre più
stringenti della macchina europea. Da non dimenticare, inoltre,
il retaggio storico, che mai come in questo caso conserva il proprio
peso: l’ingresso dell’isola nella comunità europea avvenne negli anni
’70 in maniera piuttosto tribolata e molti non dimenticano le intemerate
della Signora Thatcher che non perdeva occasione di arringare i
suscettibili sudditi di Sua Maestà al grido di “Rivogliamo indietro i
nostri soldi!”. Ecco perché è oltremodo facile pronosticare un
facile successo per i tanti fautori della libera navigazione in mari
tempestosi: meglio affidarsi alla perizia nautica dei reduci di mille
battaglie piuttosto che all’incompetenza assoluta di comandanti che han
dato pessima prova di sé.
Il conto alla rovescia è iniziato: Farage ha sfidato
pubblicamente Cameron in un pubblico dibattito sul referendum. Finora
nessuna risposta: ma sarà molto difficile, per l’inquilino di Downing
Street, negarsi al confronto con la folla che rumoreggia sotto casa. E
non è detto che non possa accadere, presto o tardi…
Da l'Indipendenza
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