Basta con l’Ue, in Inghilterra spunta la voglia di referendum popolare

lug 21, 2012 0 comments
DI Salvatore Antonaci
La supercorazzata europea, sempre più appesantita dalle enormi falle finanziarie nel proprio scafo si avvia verso un mesto destino nonostante l’affannarsi del ponte di comando. Facile anzi che disposizioni contraddittorie urlate a voci sconnesse possano accelerare anziché procrastinare il naufragio. In questo quadro a tinte fosche l’Inghilterra, terra d’elezione di marinai e corsari, cerca disperatamente di sottrarsi all’ineluttabile. I tentativi, a dire il vero, sono ancora abbastanza timidi, ma la convinzione che serva recidere il cordone che mantiene unita Albione al continente si rafforza di giorno in giorno nell’opinione pubblica.
David Cameron, Premier da due anni a capo di una coalizione dei suoi Tories con i Liberal-democratici, ondeggia tra l’intransigenza degli scettici duri e puri e la disponibilità al compromesso delle colombe. Una situazione difficilmente sostenibile per lungo tempo pena un logoramento governativo e, cosa assai più grave, di un ulteriore aggravamento della congiuntura economica. I fondamentali di Londra non sono eccellenti: il deficit non è poi così lontano dal 10%, cifra al livello da PIIGS e non sostenibile se  il rapporto debito-PIL fosse peggiore dell’attuale. Avendo rifiutato di finanziare il famigerato MES, lo scudo europeo antispread, i britannici si trovano , comunque, nell’obbligo, da membri componenti dell’UE, di onorare adempimenti finanziari di notevole peso nei confronti del carrozzone unico di Bruxelles oltreché ad adeguare tutta una serie di standard e norme giuridiche capaci di incidere nella loro quotidianità, esempio banale la modifica del tradizionale sistema di pesi e misure sostituito, ope legis, dall’obbligo di utilizzare quello decimale normalmente in uso altrove.
Facile intuire che per questi motivi e soprattutto per il timor panico di dover abdicare al radicato sentimento di autonomia, difeso per mare e per aria nel corso dei secoli, il discredito del progetto europeo abbia fatto breccia vieppiù negli ultimi anni. A partire dagli anni ’90 la politica organizzata ha visto addirittura la nascita di diversi partiti focalizzati su questa unica issue: evitare la sottomissione ad un superstato a guida franco-tedesca molto più simile ad un impero del passato o ad una moderna unione sovietica che a un semplice spazio comune di pacifica cooperazione e libero scambio economico. A fare la parte del leone in questa rinascita di orgoglio ed egoismo nazionale è senz’altro l’UKIP (Partito per l’Indipendenza del Regno Unito) guidato dal carismatico Nigel Farage. Marginale per diversi anni e capaci di grandi score solo nelle elezioni per l’europarlamento (abilmente utilizzato per offrire cassa di risonanza alle istanze radicali del movimento), gli indipendentisti sentono arrivare il momento della loro grande occasione: i meeting organizzati per le città e le campagne registrano il pienone ovunque ed i sondaggi elettorali testimoniano un’ascesa importante ad incalzare i Libdems e persino ad insidiare una parte dell’elettorato conservatore.
Ad amplificare la portata di questo terremoto in uno dei più stabili sistemi partitici del globo sicuramente vi è la campagna “grassroot” (di base, mutuando termine in voga oltre atlantico) di migliaia di cittadini trasversali ai partiti che hanno deciso di riprendersi in mano la “sovranità popolare” chiedendo a gran voce al governo di consentire la tenuta di un grande referendum dirimente, una volta per tutte, il nodo gordiano della partnership inglese nell’Unione Europea. L’input per questa sorta di tea – party all’inglese è partita da un giornale conservatore il “Daily Express” capace di raccogliere in breve tempo oltre mezzo milione di firme su una petizione pro referendaria. Da quel momento l’ ondata di piena è divenuta quasi inarrestabile: altri quotidiani importanti come il Telegraph ed il tabloid “The Sun” hanno sposato la causa e la questione è divenuta di pubblico dominio anche nella stampa televisiva, di solito molto più vicina ai desiderata dell’establishment.
La verità è che anche importanti pezzi di società finora titubanti come la business community londinese sembra propensa ad accettare la sfida disgustata dalle regolamentazioni sempre più stringenti della macchina europea. Da non dimenticare, inoltre, il retaggio storico, che mai come in questo caso conserva il proprio peso: l’ingresso dell’isola nella comunità europea avvenne negli anni ’70 in maniera piuttosto tribolata e molti non dimenticano le intemerate della Signora Thatcher che non perdeva occasione di arringare i suscettibili sudditi di Sua Maestà al grido di “Rivogliamo indietro i nostri soldi!”. Ecco perché è oltremodo facile pronosticare un facile successo per i tanti fautori della libera navigazione in mari tempestosi: meglio affidarsi alla perizia nautica dei reduci di mille battaglie piuttosto che all’incompetenza assoluta di comandanti che han dato pessima prova di sé.
Il conto alla rovescia è iniziato: Farage ha sfidato pubblicamente Cameron in un pubblico dibattito  sul referendum. Finora nessuna risposta: ma sarà molto difficile, per l’inquilino di Downing Street, negarsi al confronto con la folla che rumoreggia sotto casa. E non è detto che non possa accadere, presto o tardi…

Da l'Indipendenza

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