Di Sandro Moiso
E’ scomparso all’età di 91 anni l’ultimo patriarca della fantascienza americana.
Forse
Bradbury non avrebbe gradito questa definizione, considerato la sua
costante volontà di rivendicare la propria appartenenza, come scrittore,
più al genere fantastico che a quello fantascientifico, ma è
indubitabile che la sua fama internazionale sia indissolubilmente legata
a due opere che hanno segnato, nel bene e nel male, soprattutto la
science-fiction.
“The Martian Chronicles” (1950) e “Fahrenheit
451” (1953) hanno contribuito infatti a modificare la percezione della
letteratura fantascientifica. Nel primo caso, la tradizionale
space-opera avventurosa veniva trasformata in una delicata e nostalgica
descrizione della colonizzazione futura e del successivo abbandono del
pianeta rosso da parte della specie umana. Mentre nel secondo la
tradizione dell’utopia negativa di George Orwell e Aldous Huxley veniva
stemperata nelle pagine destinate al più vasto pubblico della
letteratura di genere.
Mentre la seconda opera era nata come
romanzo unitario, la prima era costituita da una serie di racconti
legati tra di loro dal tema dell’arrivo dei terrestri su Marte e
dell’incontro tra la loro civiltà e quella idilliaca già esistente sul
pianeta.
Saranno, infatti, i racconti a primeggiare nell’opera dello
scrittore americano e a costituire sicuramente la parte più ampia e
significativa della sua produzione.
Produzione
che inizia, con un Bradbury ancora giovanissimo, nel 1939 quando il
racconto “Hollerbochen’s Dilemma”, è pubblicato sulla rivista amatoriale
Imagination.
Da lì a poco Ray darà vita ad una propria fanzine: Futuria Fantasia.
Proprio il titolo della fanzine, così come una delle sue prime raccolte
di racconti sparsi, pubblicata nel 1955, “October Country”, ci
consegnano da subito quello che sarà il registro narrativo tipico di
tutta la sua opera, orientata più al fantastico che alla vera e propria
sci-fi.
L’autore americano, infatti, amava definirsi come un
narratore di fiabe , un rielaboratore di miti piuttosto che autore di
letteratura avveniristica.
L’inquietudine che spesso adorna i suoi
racconti migliori è più simile, infatti, all’inquietudine delle favole
piuttosto che a quelle che accompagna le trame fantascientifiche di
Philip Dick o di JamesBallard.
Per Bradbury la fantascienza parlava
troppo del reale, mentre egli amava rifugiarsi, e far rifugiare i suoi
lettori, in dimensioni fantastiche dove spesso l’inquietudine finisce
con lo stemperarsi in scenari provinciali e crepuscolari.
Molte sono le sue opere in cui i protagonisti sono bambini o ragazzi appena adolescenti.
La
più scura di queste, “Something Wicked This Way Comes” (tradotta in
Italia come “Il popolo dell’autunno”), ispirerà certamente tante opere
di scrittori che faranno del passaggio dall’infanzia all’adolescenza un
momento drammatico e pieno di mistero. L'autore, però, è ancorato ad una
immagine decisamente nostalgica di quell’età della vita e della società
americana in cui è cresciuto e quindi non saprà mai affrontare il tema
con il realismo o la suspence messi in scena da Stephen King che, pur
dichiarando ancora oggi un grande debito nei confronti dell’autore
scomparso, proprio su questo tema scriverà alcune delle sue opere
migliori (“Carrie”, “Stand By Me”, “It”).
L'infanzia e l'adolescenza diventano un reame al di fuori del tempo, così come le small town
di provincia dove, principalmente, si ambientano le storie scritte da
Bradbury.Le metropoli sono lontane e pericolose e lì la gioventù non
potrebbe essere narrata mantenendo la stessa aura di magia. Le piccole
città rappresentano invece il baluardo difensivo dei valori tradizionali
che nulla, in teoria, dovrebbe poter scuotere.
Cresciuto in una
famiglia proletaria a cavallo della Grande Depressione, Bradbury sembra
voler fermare il tempo in una età mitica, dove tutto deve ancora
avvenire.
Il cambiamento è sempre un trauma e quindi, se proprio non
può essere evitato, almeno può essere rallentato o allontanato dal
centro della scena. Per questo la fantascienza è per lui troppo
disturbante, così come la tecnologia o qualsiasi altro, realissimo
cambiamento nella sua personale ed idilliaca visione dell’American Way
of Life.
Non aveva potuto frequentare alcun tipo di college e,
dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore presso la Los
Angeles High School, si era ritrovato a vendere i giornali all’angolo
delle strade e forse questo passaggio dalle difficoltà economiche ai
successivi, e remunerativi, trionfi letterari aveva alimentato in lui
una salda fiducia nei valori del self-made man americano.
Percorso
che spesso caratterizza la visione del mondo di chi, pur provenendo dai
gradini inferiori della scala sociale, finisce col salire nell’empireo
del successo commerciale, artistico o politico.
Lo
stesso “Fahrenheit 451”, il più “politico” dei suoi romanzi, sembra più
incentrato sulla paura della perdita del libro come strumento di
comunicazione a discapito della invasiva televisione che non sul
processo di cancellazione della memoria e della cultura politica che
avviene, non solo simbolicamente, con i roghi di libri attuati da
governi dittatoriali. Sarà forse più Truffaut, nella sua versione
cinematografica del testo, a sottolinearne gli aspetti politici che non
l’autore, che pur lo propose in pieno maccartismo.
Perché anche in
questo caso, e non dichiarata, permane la nostalgia per i libri come
oggetto, depositati nelle grandi librerie pubbliche come quella della
UCLA di Los Angeles, dove in gioventù, come lui stesso amava raccontare,
passava tre giorni alla settimana a leggere e dove avrebbe composto, su
una macchina da scrivere presa a noleggio, l’opera sui roghi di carta
stampata.
Il finale stesso del romanzo, ben lontano da quelli più cupi e disperati di 1984 di Orwell e del Brave New World di
Huxley, ci rinvia ai sogni e alle immagini positive che Bradbury voleva
trasmettere al suo pubblico. Questo è probabilmente il motivo del
successo dello scrittore, fin da quando negli anni cinquanta fu
insignito (1954) del riconoscimento del National Institute of Arts and
Letters per il suo contributo alla letteratura americana, nell’ambito
dell’establishment culturale e delle produzioni televisive e
cinematografiche hollywoodiane. Fondamentale è il lieto fine e se
proprio lieto non può essere che sia almeno happy sad.
La
stessa novità rappresentata, a livello narrativo, dalla saga marziana
può essere riletta oggi, oltre che come omaggio all’opera di Edgar Rice
Burroughs di cui fu appassionato lettore e ammiratore, anche alla luce
della costante opposizione di Bradbury ad ogni innovazione tecnologica;
più come un rifiuto delle possibilità offerte dalla fantascienza come
narrativa di anticipazione (anche sociale e politica) che non un
tentativo cosciente di superare la fantascienza hard dell’epoca delle
astronavi lanciate verso Marte o i confini della galassia.
Attratto,
fin dall’infanzia, da Edgar Allan Poe e pur discendendo da Mary
Bradbury, una donna processata e condannata per stregoneria a Salem nel
1692, durante la grande e tragica caccia alle streghe che fonderà il
puritanesimo americano, eviterà sempre il perturbante più profondo,
quello che tocca le corde della sensualità e della violenza fisica e
psicologica, proprio per non dover mai dichiarare il fallimento di
quegli ideali su cui aveva fabbricato il suo universo letterario.
Questa
attitudine farà sì che, pur prolungandosi all’infinito, la carriera
dello scrittore darà ancora ben pochi altri motivi di emozione e novità
ai suoi lettori e che l’intensa primavera letteraria che scorre tra la
pubblicazione di “Cronache marziane” ed i primi anni sessanta si
trasformi ben presto in un lungo e trascolorante autunno, adatto al
carattere e all’ideologia dell’uomo Bradbury, che pur ha contribuito,
come pochi altri, all’accettazione del fantastico e della fantascienza
nell’ambito del mainstream letterario.
La rimozione della
sessualità, della carne, della storia e della società reale messa in
atto da Ray Bradbury farà sì che i suoi drammi diventino sempre più
esangui e atemporali, mentre le parti più intriganti e orride della sua
produzione finiscano col costituire, spesso, soltanto pretesti per i più
scontati colpi di scena finali. Così, allo stesso tempo, anche la
poesia delle prime opere tenderà a trasformarsi inesorabilmente in
melensaggine asessuata, casta e superficiale.
Cinematograficamente,
forse, solo un Tim Burton potrebbe oggi rivitalizzare i suoi vampiri
che volano per far divertire i nipotini oppure in volo da ogni parte del
mondo per ricongiungersi per un’innocua festa famigliare oppure,
ancora, rendere la tristezza di un bambino che sa che non potrà mai
vivere in eterno al contrario dei suoi parenti più stretti.
Ma lo
farebbe, comunque, con un maggior senso di malessere e di humor nero,
mentre anche la classica saga dei vampiri e dei lupi mannari buoni di Twilight si rivelerebbe ancora troppo sensuale per il gusto di Bradbury.
Saranno
i noir “Death Is a Lonely Business”, “Let's All Kill Costance” e “A
Graveyard for Lunatics”, sospesi a metà tra hard-boiled e fantasy, a
costituire le prove migliori della sua maturità anagrafica, anche se
anch’essi porteranno come cifra stilistica il rimpianto e la nostalgia
per il mondo di Hollywood e della California degli anni quaranta.
Proprio
la paura del cambiamento spingerà Bradbury a sostenere posizioni
decisamente reazionarie come il sostegno al presidente Bush, che poi lo
insignirà della National Medal of Arts nel 2004, oppure l'odiosa
campagna per escludere dalle cure mediche, incluso il pronto soccorso,
gli immigrati irregolari in California. Mentre all’interno dello stesso
schema di lettura non va dimenticata nemmeno la sua personale battaglia
contro gli e-book e l’editoria elettronica che, ai suoi occhi, più che
affondare le tradizionali librerie, probabilmente, rischiavano di
mettere ancora più in difficoltà il copyright.
Ancora
nel 2005 l’autore americano fece diversi tentativi per far in modo che
Michael Moore modificasse il titolo del suo documentario Fahrenheit 9/11,
un duro attacco all’amministrazione Bush nei giorni dell’attentato alle
Torri Gemelle, chiaramente ispirato al titolo del romanzo dello stesso
Bradbury, perché qualsiasi riferimento alla politica e al mondo reale,
per non parlare delle critiche al presidente che gli aveva concesso
l’alta onorificenza, doveva essere, come sempre, evitato.
Comunque
un certo fascino l'opera di Bradbury l'aveva esercitato anche
sull'immaginario degli anni sessanta. Il suo ottimismo si accompagnava
magnificamente con gli ideali della Nuova Frontiera kennedyana e
la visione della piccola comunità che resiste al mondo semplicemente
separandosene , come avviene appunto nel finale di Fahrenheit, si accordava con gli ideali che avrebbero animato tante comunità hippie e certe idee comunitaristiche di stampo anarchico.
Però
le lotte diffuse tra la fine dei sessanta e gli anni settanta avrebbero
posto all'ordine del giorno ben altre e più complesse questioni e oggi,
in un mondo in cui l'orrore per l'esistente sembra intrecciarsi sempre
di più con l'ineluttabilità del cambiamento, non resta che dare l'addio
definitivo a Ray e al suo sogno di un mondo incantato, imperturbabile e
fuori dal tempo.
Fonte:Carmilla
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