La nostra, come è noto, è una Repubblica fondata sul lavoro. Infatti, nonostante la disoccupazione a due cifre, non si fa altro che parlare di dignità del lavoro, di diritto al lavoro, di rilanciare il lavoro, e così via.
Nonostante Paul Lafargue e Bertrand Russell abbiano scritto pagine memorabili sul diritto all’ozio, i sindacati e la sinistra storica hanno accettato questo concetto, secondo il quale il lavoro nobilita l’uomo, anche quando è puro sfruttamento, in attesa di mobilitarlo, sicché, secondo i marxisti, la rivoluzione l’avrebbero dovuta fare i proletari lavoratori.
I primi lavoratori delle fabbriche erano in pratica degli espropriati dei loro diritti medievali sulla terra, e resi vagabondi e mendicanti. Costringerli a lavorare nelle fabbriche è stato un gioco da ragazzi: è bastato che gli Stati considerassero crimini gravissimi, prevedendo la condanna a morte, il vagabondaggio e il mendicare, costringendo costoro ad accettare condizioni di lavoro inumane e paghe di sussistenza, quando mendicando forse avrebbero guadagnato addirittura di più, assicurando condizioni più umane a loro e ai loro familiari.
Il mito soreliano dello sciopero generale nasce da qui, da un’ipotesi di diuturna non collaborazione con il padronato, mettendolo alla prova, per vedere quali sono le forze di un padrone a fronte della massa operaia, se non quelle che gli mette a disposizione gratuitamente lo Stato, carabinieri a cavallo e simili.
I sindacati riformisti, invece, hanno accettato il punto di vista interno, facendo proprio l’abominio del lavoro salariato, proponendosi il modesto obiettivo di migliorarne le condizioni. Sono passati 150 anni, e il problema si ripropone sotto forme diverse.
Quando si sente dire che il 30% dei giovani è senza lavoro, non si dice però che, molto probabilmente, tutto questo lavoro non esiste neanche in potenza, a meno di non inventarsi i soliti lavori inutili e dannosi, come nel paradigma della guardia forestale calabrese, o del “funzionariato” siciliano.
Occorre quindi un salto di paradigma, da quello del diritto al lavoro, a quello del diritto al reddito, dato che in epoca di automazione e di robotica, nessuna persona sensata può pensare di riversare tutto il profitto su proprietari circondati di sottoproletari senza né lavoro, né reddito.
L’Autonomia Operaia degli anni ’70 ha avuto molte colpe, soprattutto sul fronte della violenza e del fiancheggiamento al terrorismo brigatista; tuttavia, sul piano teorico, aveva colto nel segno, con la dottrina del rifiuto del lavoro (Toni Negri) e nel relativo slogan, scandito nelle piazze: “Lavoro zero, reddito intero, la produzione all’automazione”.
Oggi stanno aumentando, anche tra i teorici, coloro i quali propongono l’introduzione di un reddito di cittadinanza per tutti, non impedendo peraltro a chi lo desidera di incrementarlo ulteriormente con eventuali proprie iniziative lavorative. Si muovono su questo terreno i left-libertarians e i geolibertari, coloro i quali ritengono, con Locke ed Henry George, che la Terra nasce come proprietà comune, e che quindi chi ne trae i frutti deve lasciarne altrettanti agli altri, ovvero compensare i poveri, i diseredati e, comunque, qualsiasi altro cittadino.
George proponeva di abolire tutte le tasse esistenti, per favorire il mercato e il commercio, introducendone invece una sola, un’imposta sulla rendita per i proprietari della terra. Noi oggi potremmo muoverci nella stessa direzione, abolendo tutte le imposte che sono sul nostro capo, e introducendo un’unica imposta sui grandi patrimoni, a sostegno del reddito di cittadinanza, dando un senso di equità, che oggi manca, tanto su fisco, quanto sul regime degli ammortizzatori sociali.
Fonte: http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2012/06/03/il-rifiuto-del-lavoro-tra-patrimoniale-e-reddito-di-cittadinanza/
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