Di Gilberto Oneto
L’altro giorno Giorgio Napolitano è stato fischiato e contestato
a Mirandola. Solo qualche telegiornale ha fatto un furtivo cenno allo
spiacevole contrattempo. Fra i maggiori giornali, quasi solo Libero e Il Fatto Quotidiano
ne hanno parlato attribuendone la responsabilità ai soliti “ragazzi dei
Centri sociali”. Se non è censura di regime questa, molto poco ci
manca. E per fortuna che esiste Internet, che ha diffuso le immagini
della vicenda, dalle quali si percepisce chiaramente che gli arrabbiati
non erano due gatti, che erano terremotati e che il tono delle
contestazioni suonava più da autonomista che da centro-socialista, con
richiami al 2 giugno, agli sprechi e – ad un certo punto – anche alla
Padania.
Sono anni che le veline di regime accreditano il signor
Napolitano come straordinario depositario di tutte le simpatie popolari –
“il più amato dagli italiani”, come una nota cucina -, come il
“buono” da contrapporre al “cattivo” rappresentato dai politici
cialtroni. La costruzione a tavolino dell’immagine del “buon nonno
d’Italia” (la stessa che era stata cucita addosso a Ciampi) non regge
però alla verifica dei fatti.
Si deve portare rispetto al signor Napolitano ma nulla può obbligare la gente a mostrargli una stima che non merita.
Gli si deve rispetto per l’età e perché così impongono almeno due
articoli del Codice Rocco che puniscono il “vilipendio”, che è una sorta
di rudere archeologico della “lesa maestà” che riporta al Medioevo e
all’Ancien Regime. Roba che fa quasi più tenerezza antiquaria che
incazzare.
Ma la stima no! La stima la si deve meritare e c’è una sfilza
lunga così di motivi per cui il signor Napolitano non passa l’esame.
É il Capo di uno Stato foresto e oppressore delle liberta delle comunità padano-alpine.
É il Capo di Stato più costoso del mondo. Il Quirinale
costa ai contribuenti 235 milioni di Euro l’anno, di cui 218.407 Euro
per il suo stipendio. Ci “lavorano” più di 1.800 persone: la regina
Elisabetta ha 310 “inservienti”, la Casa Bianca 466, il re di Spagna 543
e l’imperatore del Giappone un migliaio. A servizio della Corte ci sono
35 auto blu, 274 corazzieri, 254 carabinieri, 213 poliziotti, 77
finanzieri, 21 vigili urbani e 16 guardie forestali.
Ha un curriculum personale terrificante: giovane universitario
del Guf poi comunista stalinista, sostenitore della sanguinosa
repressione della rivolta ungherese, grigio e ubbidiente funzionario di
partito, dal 1953 parlamentare comunista per decenni,
europarlamentare pizzicato a fare la cresta sui voli low cost, ministro
degli Interni nei giorni dell’incursione in Via Bellerio e della vicenda
dei Serenissimi, senatore a vita. Né aiuta il fatto che abbia firmato
con Livia Turco una devastante legge sull’immigrazione.
Nel 150° ha dato il meglio di sé rovistando fra la peggior
paccottiglia patriottarda risorgimental-fascista (roba da fare rivoltare
nella tomba Turati, Gramsci e la quasi totalità delle teste
pensanti della sinistra seria) e assumendo toni grevemente insultanti
nei confronti di tutti i giornalisti, gli storici e gli studiosi che
hanno espresso opinioni non allineate con la vulgata di regime.
Più di recente si è lanciato con il recupero unitarista del 2 giugno e
si è dedicato alle sfilate militari e a paturnie da “Fori Imperiali”.
Memoria della gioventù guffina.
Ma, ultimo ma non ultimo, si è inventato una riforma
istituzionale della Repubblica in personalissima chiave presidenziale e
monarchica, ha incaricato un governo di predoni che nessuno ha
mai eletto della tosatura dei cittadini (con particolare attenzione per
quelli padani) e non perde occasione per tracimare dai limiti
costituzionali del suo ruolo, per esternare, predicare, indirizzare,
giudicare e ordinare.
Lo fa per passare alla storia? Un modo ce l’avrebbe per
riuscirci e per conquistarsi davvero l’affetto dei popoli della
penisola: essere l’ultimo Presidente della Repubblica italiana. Tirare
giù la clèr del Quirinale, dare il “rompete le righe” e andarsene in
pensione. Come il compagno Gorbaciof.
Fonte: L'Indipendenza
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