Di Michele Paris
Un agghiacciante articolo apparso settimana scorsa sul New York Times
ha descritto esaustivamente le modalità con cui la Casa Bianca
autorizza l’assassinio mirato di presunti terroristi islamici in paesi
come Pakistan, Yemen e Somalia. Il lungo resoconto del quotidiano
americano fa luce su un programma palesemente illegale e condotto nella
quasi totale segretezza, nel quale il presidente Obama si assume
l’intera responsabilità di decidere della vita e della morte di
individui che quasi mai rappresentano una reale minaccia per la
sicurezza degli Stati Uniti.
Con cadenza settimanale, un centinaio di membri dell’apparato
anti-terrorismo americano si riuniscono in videoconferenza per valutare
le biografie di sospettati di terrorismo che vengono poi raccomandati al
presidente per entrare in una apposita “kill list”. Questo processo
segreto di “nomination”, scrive macabramente il Times, si risolve nella
decisione finale di Obama, il quale stabilisce personalmente chi debba
essere assassinato con un’incursione dei droni impiegati oltreoceano.
Secondo le parole del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas
Donilon, il presidente “è determinato nello stabilire fin dove debbano
arrivare queste operazioni”, cioè in sostanza si attribuisce il potere
di uccidere chiunque sia sospettato di far parte di organizzazioni
terroristiche e si trovi sul territorio di paesi sovrani non in guerra
con gli USA, senza passare attraverso un procedimento legale. Nelle sue
decisioni, Obama è costantemente assistito dal capo dei consiglieri per
l’anti-terrorismo, John Brennan, veterano della CIA profondamente
implicato nelle torture dei detenuti durante l’amministrazione Bush.
I reporter del Times, Jo Becker e Scott Shane, hanno potuto
contare su decine di interviste con esponenti del governo americano,
alcuni dei quali descrivono quella che appare come un’evoluzione senza
precedenti nella condotta di un presidente che, già docente di diritto
costituzionale, è passato dalle promesse di chiudere Guantanamo e di
porre fine agli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati del suo
predecessore all’approvazione senza battere ciglio di operazioni
letali.
In
seguito ad un bombardamento sferrato all’inizio del 2009 dai droni in
Pakistan, che fece un elevato numero di vittime civili, la Casa Bianca
emise una direttiva per chiedere maggiore precisione ai vertici della
CIA. In realtà, il programma non sembra essere cambiato in maniera
significativa. L’amministrazione Obama si è semplicemente limitata ad
adottare un diverso metodo nel conteggio dei morti causati dai droni,
considerando tutti i maschi adulti assassinati come “nemici in armi”, a
meno che non emergano prove della loro innocenza, ovviamente dopo il
loro decesso.
Secondo la logica dell’antiterrorismo USA, d’altra parte, tutte le
persone che si trovano in un’area conosciuta per le attività
terroristiche, o dove sono stati individuati operativi di Al-Qaeda, sono
esse stesse militanti che meritano di essere eliminati sommariamente.
Una delle operazioni che secondo il Times ha maggiormente diviso
l’amministrazione Obama è stata quella che ha portato all’uccisione di
Baitullah Mehsud, leader dei Talebani del Pakistan le cui attività non
rappresentavano una minaccia imminente per Washington, dal momento che
erano rivolte in gran parte al governo di Islamabad. Obama, dietro
insistenza delle autorità pakistane che volevano Mehsud morto, prese la
decisione di eliminarlo poiché era una minaccia per il personale
americano in Pakistan.
Inoltre, quando nell’agosto 2009 l’allora direttore della CIA,
l’attuale Segretario alla Difesa Leon Panetta, informò Obama che il
bersaglio era in vista, avvertì che un attacco avrebbe causato danni
collaterali significativi, dal momento che Mehsud si trovava presso
un’abitazione assieme alla moglie e ad alcuni familiari. Senza alcuno
scrupolo, il presidente diede l’ordine di colpire, causando la morte dei
civili innocenti presenti sul posto.
A dare un impulso decisivo al programma dei droni in Yemen fu poi il
fallito attentato del giorno di Natale del 2009, quando un giovane
nigeriano addestrato nel paese della penisola arabica cercò di fare
esplodere un aereo diretto all’aeroporto di Detroit. La stagione delle
stragi in Yemen sotto la direzione di Obama era peraltro già iniziata
poco prima. Il 17 dicembre 2009, infatti, un’incursione aerea uccise,
assieme al bersaglio stabilito, anche due intere famiglie del tutto
innocenti, mentre le “cluster bombs” rimaste sul terreno fecero poco più
tardi ulteriori vittime civili, provocando le violente proteste della
popolazione locale.
Il
nuovo giro di vite che la Casa Bianca avrebbe deciso dopo questi fatti
non portò ad una maggiore cautela nell’uso dei droni, tanto che oggi il
Pentagono può condurre attacchi in Yemen contro sospettati di cui non
conosce nemmeno il nome.
I presunti “principi” a cui si ispirerebbe Obama nell’autorizzare gli assassini mirati, per il Times
sono stati messi alla prova nella vicenda di Anwar al-Awlaki, il
predicatore estremista con cittadinanza americana trasferitosi in Yemen.
Secondo gli americani, Awlaki era coinvolto non solo nel già ricordato
attentato del Natale 2009, ma anche nella sparatoria di Fort Hood del
mese precedente, nella quale un maggiore dell’esercito USA uccise 13
persone.
Di fronte all’eventualità di uccidere un cittadino statunitense in un
paese sovrano con un procedimento segreto e senza processo spinse Obama
a chiedere il parere dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia.
Quest’ultimo, calpestando il dettato del Quinto Emendamento della
Costituzione, stabilì in maniera sconcertante che la garanzia di un
giusto processo per Awlaki poteva essere assicurata da una semplice
deliberazione interna di un organo dell’esecutivo. Con questa copertura
pseudo-legale, scrive il Times, il presidente democratico
sostenne che il via libera all’assassinio di un sospetto con passaporto
americano diventò “una decisione semplice”.
Lo scopo dell’articolo non è in ogni caso quello di smascherare uno
degli aspetti più oscuri del governo degli Stati Uniti, ma sembra
piuttosto essere stato realizzato con la collaborazione stessa
dell’amministrazione Obama per propagandare un’immagine forte del
presidente sulle questioni della sicurezza nazionale, prevenendo gli
attacchi da destra dei repubblicani in campagna elettorale.
Il ritratto di Obama che ne esce è comunque quello di un presidente
che appare perfettamente in sintonia con l’apparato militare e
dell’intelligence a stelle e strisce, le cui politiche criminali intende
portare avanti senza scrupoli o esitazioni. Tutto ciò nonostante la sua
elezione nel 2008 sia stata dovuta in gran parte alla repulsione
diffusa nel paese per gli abusi commessi sotto l’amministrazione Bush.
Significativo nel delineare la personalità di Obama, a cui, va
ricordato, nel 2009 è stato assegnato il Nobel per la Pace, è il
commento del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, che
lo definisce perfettamente “a suo agio con l’uso della forza”.
Ancora più allarmante è però lo scenario politico americano che il Times
contribuisce a descrivere. Dopo oltre un decennio di “guerra al
terrore”, ogni organo dello stato dimostra un progressivo disinteresse,
se non aperto disprezzo, per i più elementari diritti democratici.
L’autorità autoassegnatasi da Obama di decidere gli assassini mirati
condotti dalla CIA e dal Pentagono sancisce infatti la legittimità di un
programma criminale senza precedenti per un paese civile, con profonde e
inquietanti implicazioni per gli Stati Uniti e non solo.
Una deriva quella raccontata dal New York Times che risulta
ancora più preoccupante alla luce del sostanziale silenzio non solo
dell’intera classe politica ma anche di intellettuali e commentatori
liberal, da tempo ormai quasi interamente allineati alla causa
dell’anti-terrorismo, così come della “guerra umanitaria”, e disposti ad
accettare qualsiasi eccesso per assicurare la permanenza alla Casa
Bianca di un presidente democratico.
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