Intervista di Enrico Piovesana a David Graeber.*
David
Graeber, iniziamo con una domanda leggera: hai inventato il famoso
slogan “Noi siamo il 99 per cento”, o almeno te ne viene attribuita la
paternità…
Sì, la vera storia è che io ho solo suggerito di
chiamare il movimento come “il movimento del 99 per cento”. Due
indignados spagnoli, Luis e Begonia, l’hanno trasformato in “Noi, il 99
per cento” e poi è stato un attivista coreano del movimento Food Not Bombs, di nome Chris, ad aggiungere il “siamo”. Quindi è stata una creazione collettiva.
Il 99 per cento opposto all’un per cento: un nuovo modo per riaffermare una coscienza di classe in termini moderni?
Direi
di sì. E’ da 30-40 anni che negli Stati Uniti non si parla più di
classi, nemmeno all’interno dei movimenti sociali. Questo concetto è
stato completamente tolto di mezzo e sostituito da una discussione
politica incentrata su altri concetti identitari. L’un per cento non
sono solo i ricchi che hanno tratto profitto dall’espansione economica,
ma anche quelli che sono stati capaci di trasformare questa ricchezza in
potere politico, che a sua volta ha portato loro ulteriore ricchezza.
Quindi non parliamo solo di classi, ma della nuova dimensione che il
potere di classe ha assunto nell’era del capitalismo globale
finanziarizzato. I vecchi criteri di analisi non sono più validi: lo
slogan del 99 per cento è stato in grado di inaugurare un modo di
discutere delle nuove dinamiche di classe e delle nuove forme di potere
di classe, aprendo la strada a più complesse analisi di lungo termine.
Parlavi
del potere politico del denaro. Una delle principali rivendicazioni del
movimento Occupy Wall Street è proprio quello di ”far uscire il denaro
dalla politica”, per esempio attraverso l’abolizione della personalità
aziendale. Cosa ne pensi?
Questo è un tema unificante
perché spiega bene quello che facciamo, perché ci accampiamo davanti a
Wall Street. C’è stata un’enorme pressione sul movimento, anche in forma
di violenza fisica, perché presentassimo domande specifiche entrando
nel processo legislativo, con il fine ultimo di forzarci a diventare
parte del sistema. Non abbiamo ceduto a queste pressioni perché non ci
interessa giocare su questo piano in quanto il nostro è un sistema
politico non democratico basato essenzialmente sulla corruzione
istituzionalizzata. Sarebbe assurdo per noi entrare nel processo
legislativo al fine di trasformare questo sistema, perché per farlo
corromperemmo anche noi. Il concetto unificante è che il sistema
politico americano connesso a Wall Street non è una democrazia: questo
per noi è il tema-chiave attorno cui ruota tutto il resto. E’ la natura
stessa del capitalismo ad essere cambiata. Negli anni ’50 si diceva che
quel che è bene per la General Motors è bene per l’America perché
esistevano industrie estremamente produttive e fortemente tassate, e
queste tasse venivano riutilizzate dallo Stato per costruire strade e
autostrade che favorivano l’espansione dell’industria petrolifera e via
così in un circolo virtuoso. Oggi invece l’industria automobilistica, ad
esempio, non guadagna più producendo automobili ma grazie alle sue
attività finanziarie. I profitti di Wall Street provengono oggi in gran
parte dalla finanza: queste compagnie, che praticamente non pagano
tasse, prendono soldi direttamente dalla gente e li usano per corrompere
i politici al fine di ottenere da loro il diritto di prenderne ancora
di più. Questo è essenzialmente il sistema che abbiamo. Le questioni
economiche tirano necessariamente in ballo questioni politiche, e
viceversa: tutto è tenuto insieme dal ruolo del denaro in politica.
Molti
dicono che lo slogan ‘Noi siamo il 99 per cento’ ha in qualche modo
sostituito quello della campagna elettorale di Obama, ‘Sì noi possiamo’
come una nuova speranze per un reale cambiamento dopo la disillusione
dell’amministrazione Obama. Che impatto pensi avrà il movimento Occupy
sulle elezioni presidenziali di novembre?
Abbiamo un
candidato totalmente schierato con Wall Street e un altro candidato che è
lui stesso Wall Street! Dov’è la scelta?! Queste elezioni non fanno che
mostrare quanto abbiamo ragione a dire che il processo politico è ormai
completamente controllato dall’uno per cento perché entrambi i
candidati sono invisi alla base dei loro partiti: quella dei
Repubblicani si deve tenere Romney perché è lui che ha i soldi; quella
dei Democratici che si era mobilitata per Obama oggi è completamente
disillusa da lui ma lo deve votare comunque perché non ha scelta. Questa
è la definitiva dimostrazione di come la scelta dei nostri governanti
in America non sia affatto democratica e che abbiamo ragione a non voler
lavorare all’interno del sistema politico rigettandolo in toto.
Hai
scritto un libro sulla crisi della democrazia rappresentativa
occidentale, nel quale sostanzialmente dici che una società democratica
alternativa si sta già sviluppando “nel guscio di quella vecchia” sotto
forma della democrazia diretta praticata dai movimenti Occupy e
Indignados. Ma come può questo modello diventare una vera alternativa e
non rimanere un esperimento marginale e ininfluente?
Bisogna
iniziare dal basso quando si fa una rivoluzione che è allo stesso tempo
politica e culturale. Il problema che noi abbiamo in America, per
esempio, è che tutti pensano di vivere in una società democratica ma
quasi nessuno ha esperienza di cosa significhi praticare la democrazia,
prendere decisioni in modo democratico. Noi stiamo cercando di creare la
cultura, l’abitudine, la sensibilità di una società democratica, il che
è un gran lavoro. Quale tipo di strutture istituzionali più ampie
potranno emergere una volta che queste abitudini diventeranno
connaturate, non lo si può prevedere. Ci sono tante idee… su come le
istituzioni democratiche si possono confederare, se ci debbano essere
sistemi di selezione attraverso estrazione (invece che per elezione,
ndr), se ci debbano essere delegati richiamabili, su come combinare una
radicale decentralizzazione con qualche tipo di istituzioni
specializzate… non lo possiamo ancora sapere. Stiamo parlando di
reimmaginare tutto quanto, non di piccoli cambiamenti.
Come
giudichi il grande successo ottenuto nelle recenti elezioni qui in
Europa da nuove formazioni politiche (come i vari Partiti dei Pirati o
il movimento del comico Beppe Grillo qui in Italia) che si presentano
come alternativa all’illusoria scelta ‘Coca-Pepsi’ offerta dai partiti
tradizionali e come sostenitori di una democrazia più partecipativa?
E’
difficile per me giudicare, provenendo dall’America dove il sistema
politico è costituzionalmente bloccato da due partiti. In un sistema
parlamentare c’è più spazio di manovra e non stupisce che in un momento
di ribellione di massa contro il vecchio ordine politico vengano fuori
nuovi partiti, che il sistema proverà a cooptare. In America non c’è
nemmeno questa opzione perché siamo imprigionati in una struttura
bipartitica molto più corrotta e asservita al potere economico di com’è
qui. Non potendo sperimentare partiti diversi, a noi americani non
rimane che rifondare tutto dal basso. A ben vedere questa opzione ha un
grande valore, perché quando si rimane legati alle dinamiche di potere
gerarchiche che caratterizzano lo Stato, quando si diventa legislatori
di politiche che poi lo Stato applica per mezzo del suo apparato di
violenza, ci sono sempre forme di compromesso che entrano in gioco.
Compromessi che invece non esistono quando si mantiene un’autonomia
dalle strutture esistenti. In conclusione, pur giudicando interessanti e
validi gli esperimenti di questi nuovi partiti, ritengo che alla fine
avere spazi dove sia possibile sperimentare una rielaborazione completa
delle istituzioni sia più importante nel lungo periodo.
Un’importante
questione qui in Europa è che, con il pretesto di avere politiche più
coordinate per affrontare la crisi economica, l’Unione europea si sta
muovendo verso la creazione di un super-Stato europeo centralizzato
all’interno del quale i singoli Paesi europei perderanno ogni residua
sovranità nazionale. Cosa ne pensi?
Non avrei da obiettare
se questo processo fosse accompagnato da una decentralizzazione del
potere a livello locale, ma non è proprio quello che sta accadendo.
Creare un ulteriore livello di burocrazia non responsabile (verso i
cittadini, ndr) difficilmente migliorerà le cose. L’altro problema è in
nome di chi e come viene portato avanti questo processo: la creazione
dell’Europa è stata costruita attorno a principi neoliberali secondo i
quali il confronto ideologico è essenzialmente finito, ma che in realtà
sono serviti a mascherare una costante redistribuzione della ricchezza a
favore di una percentuale minima della popolazione. Una pratica che
verrà portata avanti con maggior forza da ogni nuovo sistema
sovraordinato, in assenza di una genuina democratizzazione di base a
livello locale.
L’altro libro che hai scritto tratta il
concetto del debito. Il debito pubblico è oggi il principale problema
delle economie occidentali, l’altare sul quale vengono sacrificati il
welfare e i diritti dei lavoratori. Quale potrebbe essere, secondo te,
una soluzione realistica a questo fondamentale problema della nostra
società moderna?
E’ ironico che la gente parli del debito
come se si trattasse di un’obbligo sacro. Dominique Lagarde ha
recentemente detto che nessuno può mettere in dubbio il fatto che tutti
debbano pagare i propri debiti. Ma nessuno ha detto lo stesso riguardo
ai debiti dei gruppi assicurativi americani, o riguardo alle istituzioni
finanziarie ‘troppo grandi per fallire’ come Goldman Sachs o Bank of
America che se la son cavata nonostante miliardi di dollari di debito.
Com’è possibile considerare eticamente doveroso salvare dalla bancarotta
Goldman Sachs, ma non la Grecia, nonostante le sofferenze umane che
questa scelta implica? Nessuno avrebbe sofferto in caso di fallimento di
Goldman Sachs, mentre in Grecia è un disastro! Una delle cose che ho
cercato di approfondire nel mio libro è proprio come siamo arrivati a
questa assurda moralità del debito, ancora oggi difesa nonostante tra il
2008 e il 2011 sia stata smascherata. Perché non siamo stati in grado
di dire: “Ok, il denaro è una convenzione sociale che creiamo e
distruggiamo a nostro piacimento, quindi basta parlare di debito e
interessi da pagare come dogmi indiscutibili: sono semplici promesse!
Noi diamo per scontato che quando un politico promette qualcosa agli
elettori non mantenga la sua parola, ma riteniamo inconcepibile non
rispettare la promessa data a un hedge fund. Due pesi e due misure.
In
quanto anarchico e iniziatore di Occupy Wall Street, consideri questo
movimento – con la sua democrazia orizzontale e partecipativa, le sue
assemblee generali, il suo impegno politico a livello di comunità locali
– come un movimento anarchico? Magari inconsapevolmente anarchico?
Molte
delle persone coinvolte fin dall’inizio nel mettere in piedi le
strutture decisionali delle assemblee generali in base al principio del
consenso, nel seguire una strategia di disobbedienza civile senza
chiedere autorizzazioni o trattare con la polizia… Tutte queste
decisioni-chiave iniziali sono state prese da anarchici o comunque sulla
base di principi anarchici. La maggior parte degli anarchici coinvolti
nella nascita del movimento non erano anarchici settari, ma gente che
vuole agire in base a princìpi anarchici ma che non considera l’anarchia
come identità politica bensì come un orizzonte politico di uscita dal
capitalismo e di creazione di istituzioni compatibili con una società
autentica e libera Da quando è nato il movimento, milioni di persone in
America hanno potuto sperimentare forme di organizzazione anarchica,
molti senza averne alcuna consapevolezza.
Foto: Germana Lavagna (E-il Mensile)
*Anti-leader del movimento Occupy Wall Street e ideatore dello slogan
del 99 per cento. Antropologo americano, docente alla Goldsmiths
University of London (dopo essere stato cacciato da Yale per la sua
militanza anarchica) e autore di numerosi libri. In Italia sono stati
recentemente pubblicati Critica della democrazia occidentale (Eleuthera) e Debito (Il Saggatore).
Da E-il mensile
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