Di Alessandro Tapparini
“Guardavo l'inizio del film e non riuscivo a credere ai miei occhi. La scena è
vista da un veicolo volante, che sta atterrando in cima a un palazzo
della polizia alto quattrocento piani. Questo palazzo della polizia di
quattrocento piani domina il paesaggio, e corrisponde esattamente a una
mia idea del nostro futuro tra quarant'anni. Il film è ambientato fra
quarant'anni. E il fatto che vi sia questa titanica sede della polizia a
dominare l'intero paesaggio è precisamente come mi immagino il futuro
fra quarant'anni. Milioni di piccole case e questo immenso palazzo della
polizia”...
Era entusiasta come un ragazzino Philip K. Dick dopo aver visto l'anteprima di Blade Runner, il film tratto dal racconto “Do Androids Dream of Electric Sheep?”
che egli aveva scritto tredici anni prima, nel 1968. Eppure quando
aveva letto il copione aveva espresso tutto il suo dissenso: “non avrà
nulla a che vedere con il mio racconto, verrà fuori una gigantesca
schifosa collisione di androidi che esplodono, androidi che uccidono
esseri umani, gconfusione generale e ammazzamenti…”. Invece quando nella
primavera del 1981 gli mostrarono alcune sequenze di ciò che Ridley
Scott stava producendo, se ne innamorò. Non avrebbe mai visto il film
finito, in un cinema: morì di infarto nel marzo del 1982, appena
cinquantaquattrenne. Il film uscì nelle sale poco dopo, nell'ultimo
weekend di giugno: esattamente trent'anni fa. Lì per lì ebbe un successo
discreto ma non enorme. Il pubblico gli preferì l' E.T. Di Spielberg,
più in sintonia con il ritrovato ottimismo di quei nascenti anni
Ottanta. Il film di Scott, così tetro ed inquietante, pareva più legato
alle inquietudini ed al pessimismo degli anni Settanta che la gente non
vedeva l'ora di lasciarsi alle spalle. Solo con il passare degli anni
sarebbe divenuto sempre più una pellicola di culto.
Ray Bradbury, il recentemente scomparso geniale autore di Fahrenheit 451 e di Cronache Marziane,
sosteneva che la differenza tra il genere fantasy e la fantascienza è
che quest'ultima è fatta di storie che potrebbero realmente accadere in
un futuro non troppo remoto, mentre il fantasy non ha a che vedere con
il futuro possibile. Ecco perché Guerre Stellari,
nonostante i robot e i raggi laser, non è un vero film di fantascienza:
e difatti dichiaratamente non è ambientato nel futuro, bensì in un
mitico passato remoto come le antiche saghe epiche e le fiabe della
buonanotte («Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana.... »).
Blade Runner è invece proprio il nostro futuro: il futuro così come
vogliamo che non sia. Perché questo è ciò che con rara maestria Philip
Dick ha sempre narrato: la nostra paura, ciò che temiamo il nostro mondo
divenga. Il futuro come incubo. La megalopoli disumanizzante,
l'inquinamento, la decadenza, la tecnologia al servizio di qualcosa o
qualcuno che non sei tu.
Hollywood avrebbe poi attinto molte volte dai suoi racconti terribili e meravigliosi: con Atto di Forza (di cui sta per uscire un remake con Colin Farrel nel ruolo che fu di Arnold Schwarzenegger), con Screamers, con Minority Report
e con molti altri. Ma quella fu la prima volta, e ne uscì un film
perfetto. Non tanto per via della trama, per la verità: quella risultava
poco chiara, e il fatto stesso che il protagonista, un poliziotto
incaricato di “uccidere” i replicanti umanoidi che, ribellatisi,
andavano ritirati come prodotti difettosi, alla fine si scoprisse essere
lui stesso un replicante, si sarebbe compreso solo una volta uscito il
“director's cut” nel 1992 e il “final cut” nel 2007. A decretarne il
lento ma inesorabile successo sarebbe stato tutto il resto: gli effetti
speciali mozzafiato (ancora senza l'ausilio del computer), la musica di
Vangelis, le architetture avveniristiche (talvolta attinte dalla realtà, perché in un futuro credibile ci deve pur essere qualcosa di già visto da qualche parte), lo sguardo magnetico di Harrison Ford, il divo del momento reduce dal successo di Guerre Stellari e de I Predatori dell'Arca Perduta.
E c'erano quei dialoghi rarefatti e quei monologhi surreali che
suggerivano sensazioni di un altro mondo, di un'altra dimensione.
Una curiosità: il monologo più celebre, quello dell'androide morente interpretato dal glaciale Rutger Hauer (“io ne ho viste di cose che voi umani non potete nemmeno immaginare”),
si deve in parte alla improvvisazione dell'attore. Nella sceneggiatura
originale non era previsto perché il personaggio non veniva ucciso.
Venne inserito in un secondo momento, ma era troppo lungo e l'attore
provo a sintetizzarlo improvvisando. Solo l'ispirazione del momento gli
mise in bocca la frase struggente e perfetta “tutti quei momenti andranno persi nel tempo, come lacrime nella pioggia”.
Fonte:America 24
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