Di Marco Maurizi
1. La teriofobia, cioè la “paura degli animali” (dal greco therios, belva, e phobos,
paura), è una caratteristica strutturale della civiltà. Essa è divenuta
un luogo comune, una delle tante ovvietà che, proprio perché ovvie,
nascondono molto più di quanto non dicano a prima vista. “Si sa” che la
civiltà ci “protegge” dal pericolo rappresentato dalla natura
“selvaggia”. Dall’antichità fino ad oggi, ci rappresentiamo il nostro
dominio sul resto del vivente nella forma di una legittima difesa: “il
compito principale della civiltà, la sua propria ragion d’essere, è di
difenderci contro la natura”.[1] Pur
ammettendo che l’intelligenza e la cooperazione abbiano permesso
all’umanità di proteggersi dall’aggressione di fiere fameliche e altri
pericoli naturali, è del tutto evidente che il nostro attuale dominio
sul pianeta, se davvero dovesse giustificarsi in questi termini,
dovrebbe qualificarsi come un mostruoso esempio di eccesso di legittima
difesa.
2. La realtà, tuttavia, è ben diversa.
Ciò che fa paura è semplicemente l’oggetto di una rimozione, ciò che
deve essere sacrificato, addomesticato, respinto o, al limite, eliminato
perché lo spazio dell’esperienza umana possa chiudersi e compiersi
senza resti, ostacoli, disturbi. La civiltà poggia su una
contrapposizione tra umano e non-umano che struttura sia materialmente
che simbolicamente ogni aspetto dell’esperienza umana. Che si tratti
della “natura esterna” prima cacciata e poi addomesticata o della
“natura interna” che deve venir coltivata secondo il principio di
prestazione vigente, “per fare un uomo” ci vuole il dominio materiale e
simbolico sull’animale: sia quello non-umano, sia quello umano[2].
Ed è così che quell’opposizione fondamentale tra umano e non-umano
regola tutte le altre opposizioni di cui è intessuta la nostra
esperienza sociale: tra “uomo” e “animale”, tra “cultura” e “natura”,
tra “razionalità” e “sentimento”, tra “conscio” e “inconscio”, tra
“anima” e “corpo”, tra “maschio” e “femmina”, tra “adulto” e “bambino”,
tra “residenti” e “stranieri” ecc. Il secondo termine assume sempre il
ruolo passivo-negativo-materiale rispetto ad un principio
attivo-positivo-formante che deve dominare e mantenersi “puro”,
incontaminato dall’Altro. In questo meccanismo che anima la dialettica
della civiltà ognuno deve essere disposto a sacrificare una o più forme
dell’animalità (sia dentro che fuori di sé) per poter essere ammesso nel
cerchio rispettabile dell’umano. In tal senso, come scrivono Adorno e
Horkheimer, la storia della civiltà è la storia dell’“introversione del
sacrificio”.
L’esistenza naturale, animale e vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo…Il ricordo vivo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende…L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.[3]
Ciò che resta “fuori” da questo gioco di esclusione/inclusione, rimane come minaccia, ritorna come un fantasma, assilla come un incubo
il Sé “identico, pratico, virile” necessario per adeguarsi alla società
classista, con i suoi conflitti endemici, la sua violenza diffusa e
capillare, la sua logica di prestazione e competizione. Tutto ciò che
nega quell’identità, quella praticità, quella virilità è oggetto di
paura perché alberga, oscuro e inascoltato, alla radice del meccanismo
stesso che, rimuovendolo dall’esperienza “umana”, rende quest’ultima
possibile.
3. È ormai da secoli che ci è risparmiata
la possibilità di avere effettivamente “paura” degli altri animali,
eppure la società capitalistica tecnologicamente sviluppata, totalmente
urbanizzata, che non si limita più solo a dominare la natura
dall’esterno ma oggi si ripromette di riprogrammarla geneticamente
secondo i propri bisogni, continua ad aver paura degli animali
non-umani. Questa paura non sarebbe giustificabile se dovesse basarsi
sui dati di fatto. Esattamente come nel caso dei fenomeni migratori,
allucinatoriamente esasperati dall’opinione pubblica fino a farli
diventare “ondate” di “barbari” e “stupratori” a dispetto di ogni
statistica, così il ruolo degli animali nella nostra società continua ad
essere vissuto come una fantasia delirante e persecutoria.
La strategia linguistica che lo specismo
mette in opera per stabilizzare e giustificare l’ordine dello
sfruttamento modifica infatti l’esperienza reale del terrore animale
preistorico trasformandola in falsità e inganno. A fronte dell’immane
potenza con cui le società umane schiacciano sotto il proprio giogo il
resto del vivente, la risibile affermazione del “pericolo” rappresentato
dagli animali non cessa di risuonare nei titoli strillati dei mass
media (si pensi alle consuete notizie allarmistiche sui cani “mordaci”,
sulle fughe di “fiere” da circhi e zoo o, di recente, sui “lupi” che,
approfittando delle abbondanti nevicate nel centro Italia, sono
“tornati” a seminare paura in alcuni paesi) e più sotterraneamente, ma
non meno efficacemente, nelle nostre coscienze. Solo se l’altro è reso
un “mostro”, è immaginato come più potente e più forte di noi può essere
vissuto come minaccia e il nostro atteggiamento nei suoi confronti può
assumere i tratti auto-assolutori di un atto di legittima difesa. Si
tratta del meccanismo in base al quale viene decretata nell’immaginario
la “superiorità degli inferiori” per poterli più comodamente opprimere
nella realtà: una “procedura simbolica che fa dell’altro o dell’altra un monstrum, comunque un essere dotato di una potenza o di un potere smisurati o anomali”[4].
Il migrante “sporco” o “stupratore”, la donna “emotiva” o “seduttrice”,
l’animale “infestante” o “famelico”: tutti riferimenti ad una natura
selvaggia, cieca e indomita cui la civiltà contrappone il proprio ordine
razionale, libero e giusto. Come osserva Melanie Bujok, “la paura del
non-dominato esige ordine. Il ‘mostro’ animale deve essere chiamato per
nome per mantenere la distanza emotiva, cognitiva e sociale e non
permettere che alcun dubbio ostacoli il sacrificio degli animali”[5].
In tal modo, “ogni singolo attacco di un individuo animale nei
confronti di un umano viene universalizzato come attacco ‘degli animali’
all’umanità che giustifica l’intervento totale e violento delle
istituzioni sociali nei confronti di ogni singolo individuo animale. […]
Il morso di un cane legittima un’intera epoca di sofferenze per gli
animali, […] l’animale viene accusato di essere una possibile minaccia,
per potergli negare ogni solidarietà […], per impedire che gli animali
possano aspirare alla giustizia”[6]. Il carnefice si discolpa accusando la vittima inerme.
4. Ma la strategia auto-assolutoria dello
specismo si muove anche su un altro livello. Essa considera infatti un
pericolo non solo l’oggetto della sua rimozione violenta (la natura
umana e non-umana “addomesticata” dalla società), ma anche coloro che ricordano questa rimozione e, così facendo, la denunciano.
Gli animalisti, i veg*ani e gli antispecisti sperimentano sulla propria
pelle l’effetto di ritorno di quella violenza esercitata sugli animali
non-umani nella forma di un perenne ostracismo di cui sono fatti oggetto
dal resto della società. Tutto ciò non è affatto un caso. Se è vero,
infatti, che la “rimozione dell’animale”[7]
costituisce lo sfondo su cui si erge l’intera civiltà del dominio,
coloro che attestano la propria simpatia verso il non-umano, coloro che
ne riconoscono la vicinanza empatizzando con la sofferenza di cui gli
animali non-umani sono vittime, coloro che rifiutano di disconoscerne
l’abissale diversità, irriducibile al recinto dell’“animalità” cui
vorrebbe costringerli la cultura antropocentrica, sono proprio coloro
che non accettano quel sacrificio su cui si fonda il “Sé identico,
pratico, virile”.
(1) Contro l’identità. Chi denuncia la violenza sugli animali denuncia la falsità su cui è costruita l’identità umana in quanto non-animale,
denuncia cioè l’astrattezza di una definizione di “umano” che si fonda
su un duplice gesto paranoide: l’accorpamento di tutti gli altri esseri
viventi in un calderone indiscriminato (l’Animale) e la costruzione di
una barriera gerarchica e auto-immunizzante tra “noi” e “loro”.
(2) Contro l’agire “pratico”.
Chi denuncia lo specismo, la prassi di sfruttamento della natura
non-umana, denuncia anche il comportamento “pratico” dell’uomo della
strada, di chi non vuole sentire tante storie e agisce sicuro di sé
perché “si fa così”. Denunciando comportamenti solitamente accettati
come “normali”, “razionali”, di “buon senso”, si mostra che tale
normalità, tale razionalità, tale buon senso sono 1) dei costrutti sociali
e, come tali, non valgono assolutamente ma solo per il tipo di società
che si è storicamente imposto; e 2) che tale comportamento è intriso di violenza e di sopraffazione ed è quindi in contraddizione
con gli ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà che dovrebbero
costituire la quintessenza della “civiltà” e che invece, nella loro
declinazione antropocentrica, ne rappresentano l’assoluta negazione.
(3) Contro la virilità. Infine,
chi denuncia l’indifferenza verso la sofferenza animale denuncia anche
il modello psicologico socialmente accettato, ne denuncia lo squilibrio
tra razionalità ed emotività. Spesso si accusa chi denuncia la violenza
sugli animali di essere “troppo” emotivo (se non, addirittura, “femmineo”)
o di pretendere da altri una solidarietà verso gli animali che non può
essere “obbligatoria”, poiché sarebbe imperscrutabilmente iscritta nel
cuore del singolo e, come tale, non potrebbe essere oggetto di alcuna
richiesta perentoria. Questo tipo di considerazioni (su cui, purtroppo,
gli stessi animalisti cadono facilmente quando accusano gli altri umani
di essere “cattivi”) sorvola su ciò che il sociologo Zygmunt Bauman ha
chiamato “la produzione sociale dell’indifferenza morale”[8].
Per spiegare come sia stato possibile che migliaia di tedeschi,
cittadini esemplari, educati, spesso culturalmente raffinati, buoni
padri di famiglia ecc. avessero potuto partecipare senza remore morali
al massacro degli ebrei, Bauman sottolinea come i meccanismi della
solidarietà e dell’avversione morale siano socialmente costruiti, come,
in sostanza, l’empatia non sia misurabile individualmente bensì
socialmente. Gli antispecisti, oggi, testimoniano di una possibilità che
l’attuale società nega con tutte le sue forze: che è possibile
un’organizzazione sociale diversa fondata non sulla logica della
repressione, dello sfruttamento dell’altro, dell’accumulazione e
dell’espansione, bensì sull’uguaglianza sociale, sul riconoscimento e la
valorizzazione della diversità, sul godimento, il gioco, il dono.
5. Chi ragiona in questo modo, chi chiede
il “perché?” dietro ogni violenza istituzionalizzata, chi immagina un
mondo diverso, chi testimonia con la propria vita la possibilità di un’altra
vita, è allora oggetto di quel terrore panico che coglie ogni membro di
questa società quando le pareti della quotidianità vacillano e mostrano
come ciò che appare “naturale” e “ovvio” non sia altro che un
costrutto, un palcoscenico, una finzione. Ecco allora che chi ragiona
contro la razionalità dominante sragiona, è un folle. Chi chiede conto della sopraffazione è un’anima bella, un emotivo che non sa accettare la durezza della vita. Chi apre l’occhio dell’anima al di là dell’orizzonte del presente è un sognatore,
un acchiappa-nuvole, uno che non sa “come stanno veramente le cose” (in
realtà lo sa fin troppo bene e se lo “stato di fatto” non gli va è
disposto ad urlare, assieme ad Hegel, “tanto peggio per i fatti!”). Chi
sceglie di rendere la propria vita una testimonianza di questa
possibilità negata, chi sceglie di non mangiare carne, di non usare
prodotti animali di alcun tipo, è un estremista, un “talebano”,
uno che vuole imporre il proprio punto di vista. Certo, è vero che
spesso gli animalisti dimenticano che “non c’è vita vera nella falsa”[9]
e attribuiscono troppa importanza al proprio “stile di vita”, ma ciò
non cambia il ruolo che essi oggettivamente svolgono nell’inceppare il
meccanismo del dominio: essi fanno paura, non perché rappresentino un
pericolo immediato (nonostante statistiche trionfalistiche sul
numero dei vegetariani nel mondo l’antispecismo è ancora consapevolezza
di un’esigua minoranza) ma perché rappresentato un pericolo reale e radicale a livello sistemico.
Per questo, nonostante la loro esiguità numerica, gli animalisti hanno
da sempre suscitato scherno e fastidio, tattiche di dissimulazione della
reale percezione del “pericolo” che essi rappresentano per l’attuale
ordine sociale. Queste tattiche scattano in modo assolutamente
automatico e inconscio nell’interlocutore specista di turno, a
dimostrazione di quanto radicata sia la “rimozione dell’animale”. Altra
dimostrazione di quanto sia proprio questo meccanismo ad essere
solleticato da ogni attestazione di simpatia verso la sofferenza degli
altri animali è la terribile stereotipia che caratterizza le
risposte. Anche quando vengono pianificate dall’alto in apposite
campagne, infatti, è facile constatare l’assoluta prevedibilità e
ripetitività delle critiche che la prospettiva antispecista suscita.
Esse vanno invariabilmente a difendere quella “identità”, quella
“praticità” e quella “virilità” di cui è costituito il Sé dell’uomo
civilizzato: ora saranno “ovvie” (e dunque solitamente fallaci)
considerazioni sulla “diversità” e/o “superiorità” tra “noi” e “loro”
(o, inversamente, “anche loro lo fanno/farebbero con noi, dobbiamo
difenderci”); ora saranno considerazioni sul fatto che “sarebbe bello
se…ma è impossibile” (“dove metteremo le mucche?”, “su chi
sperimenteremo?”, “anche l’agricoltura è violenza” ecc.); ora sarà la
necessità di non farsi prendere dall’emozione e invece “ragionare
seriamente”. La solfa suona ormai talmente poco credibile che
recentemente il New York Times
ha indetto una grande consultazione alla ricerca delle “ragioni etiche
per mangiare carne”, a dimostrazione che la nostra caparbia
testimonianza comincia ad intaccare il muro dell’indifferenza
socialmente prodotta e delle sue certezze automatiche ed
auto-assolutorie.
6. Ogni attivista o simpatizzante per i
diritti animali ha da tempo fatto sulla propria pelle l’esperienza di
come la teriofobia sia pervadente, quasi asfissiante. All’inizio questa
esperienza è stata vissuta in forma individuale, generando
necessariamente sensazioni di solitudine e sconforto, della serie “loro”
non “mi” capiscono. Aggregandosi ad altri simpatizzanti verso la
sofferenza animale, si è poi inevitabilmente tentato di uscire dal senso
di isolamento attraverso una coscienza collettiva: la propria scelta ha
così guadagnato i contorni netti di una scelta condivisa e quindi non
più tanto assurda. Il “noi” ha sostituito l’“io” della pratica
individuale rafforzandosi nella forma di uno “stile di vita” condiviso[10].
Ciò ha avuto un effetto distorcente anche sul modo in cui la teriofobia
è stata teorizzata all’interno del movimento di liberazione animale. Si
è infatti parlato di “vegefobia” come della “discriminazione” di cui
sarebbero fatti oggetto i veg*ani e del modo in cui tale discriminazione
sia, in realtà, una mossa per mettere a tacere ancora una volta la voce
degli animali, rappresentati metonimicamente da chi sceglie di non
mangiarli. Con questo mi sembra si sia detto al tempo stesso troppo e
troppo poco.
Troppo perché, come è stato da più parti
obiettato a chi denunciava la “vegefobia”, è particolarmente infelice
parlare di “discriminazione” per il fatto di essere talvolta derisi a
tavola o perché la mensa scolastica non offre pietanze adeguate. Si
possono raccogliere tutte le testimonianze di questo mondo o tacciare
l’intero sistema mediatico di atteggiamenti derisori o persecutori nei
confronti dei veg*ani, ciò non cambia il dato di partenza: a fronte
della violenza e del sangue che storicamente grondano dalla parola “discriminazione” è un chiaro atto di formalizzazione e di spoliticizzazione definire “discriminatori” questo tipo di fenomeni[11].
La violenza e il sangue, si dirà, non saranno quelli dei veg*ani ma
sono quelli degli animali. Certo, solo che il problema di questi ultimi
non è il loro essere “discriminati” (come vuole l’antispecismo che
prende le mosse da Singer), bensì il loro essere “sfruttati”. Il
discorso sulla vegefobia non solo non aiuta a chiarire la differenza e
ad articolare il rapporto tra discriminazione e sfruttamento, ma
addirittura confonde ancora di più le cose, parlando della
discriminazione degli animali attraverso la discriminazione degli umani.
Si tratta di un pericoloso cedimento all’ideologia liberale che ha
portato alla pratica del politically correct: quest’ultima
sublima la lotta materiale di gruppi oppressi dentro specifici sistemi
di potere nell’ecumenico riconoscimento della diversità a livello discorsivo, attraverso pratiche ben oleate e amministrate di cooptazione delle classi dirigenti di quegli stessi gruppi e il riconoscimento di diritti formali
che non intaccano gli interessi materiali che profittano della loro
oppressione. A chiunque è oggi permesso denunciare la “discriminazione”
di cui è fatto oggetto in quanto membro di un gruppo X (religioso,
etnico, di orientamento sessuale e ora…alimentare!), purché ciò non
modifichi gli assetti di potere vigente. Inserendosi dentro questa
logica sistemica, il discorso sulla “vegefobia” banalizza ciò che
storicamente è sedimentato nella parola “discriminazione” accogliendone
l’incarnazione liberale che alleggerisce e appiattisce i conflitti
politici sterilizzandoli e armonizzandoli in conflitti di opinione.
Si potrebbe obiettare che in realtà il
discorso sulla “vegefobia” è più radicale del discorso liberale perché
tenta di dare voce al gruppo oppresso che è oggetto dello sfruttamento
più feroce: a suo supporto è stato infatti elaborata la teoria della
“negazione simbolica” degli animali attraverso la discriminazione dei
veg*ani. In sostanza, denunciare la “vegefobia” è un modo per ricordare
come sia la voce stessa degli animali uccisi ad essere silenziata
attraverso la “discriminazione” dei veg*ani. Ma su questo versante del
discorso la “vegefobia” dice invece troppo poco. Come abbiamo visto,
infatti, non è il fatto di astenersi dal “mangiare carne” di per sé a
provocare la reazione sarcastica, stizzita o autoritaria denunciata come
“discriminatoria”. È il fatto di mostrare solidarietà con la vita
animale (umana e non-umana) che costituisce l’architrave del sistema
sociale vigente a far scattare il meccanismo difensivo che porta alla
derisione o al linciaggio (per fortuna solo simbolico) di chi esercita
quella solidarietà. La “vegefobia” non permette di spiegare il
risentimento nei confronti di chi si oppone alla sperimentazione
animale, di chi protesta contro una sfilata di pellicce o una sagra di
animali. La teriofobia sì. Essa si radica nelle viscere nere dello
specismo sociale e ne estrae la bile più violenta di fronte al gesto più
gentile e allo sguardo più compassionevole. Questa l’assurda legge del
contrappasso che va spiegata e lo si può fare solo collegando la genesi e
la struttura della civiltà con la rimozione dell’animale e la
conseguente paura che il suo ricordo suscita.
L’animalista, il veg*ano e, ancor di più,
l’antispecista come testimoni di una vita irriducibile alla “normalità”
dell’attuale sistema sociale e politico, producono con la loro semplice
esistenza una crepa insopportabile nel Sé individuale e collettivo,
nelle sue certezze, nelle sue priorità, nei suoi valori. Questo basta
per far montare l’angoscia diffusa di “conti che non tornano”, di un
senso di colpa che non riguarda solo il sacrificio degli animali
non-umani ma anche di tutto ciò che dentro il soggetto è stato
necessario cancellare o mettere a tacere perché la normalità potesse
esercitarsi indisturbata a fronte di tanta violenza. La mortificazione
dell’animale umano è il contrappunto alla messa a morte dell’animale
non-umano. Chi anche solo dice di voler rifiutare tutto ciò risveglia
una paura ancestrale, smisurata come tutto ciò che appare
retrospettivamente alla memoria nello specchio deformante dell’infanzia.
[1] S. Freud, L’avvenire di un’illusione in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 19928, p. 155.
[2] Ho esposto in modo più dettagliato questi temi in M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.
[3] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1994, p. 50.
[4] A. Rivera, La bella, la bestia e l’umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Diesse, Roma 2010, p. 105.
[5]
M. Bujok, “La resistenza contro lo sfruttamento animale. Riflessioni
sul rapporto tra società razionale e liberazione animale a partire dalla
Scuola di Francoforte”, in M. Filippi – F. Trasatti, L’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 254.
[6] Ibid.
[7] F. Trasatti, La rimozione dell’animale, su «Liberazioni.org»
[8] Z: Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 2010, p. 38.
[9] Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, p. 35.
[10] Ho già denunciato altrove il rischio identitario
di questo atteggiamento, soprattutto perché finisce per confondere la
lotta contro un sistema sociale, economico e culturale – e dunque una scelta politica,
cioè un’idea diversa di società – con la testimonianza individuale o
al massimo di tanti individui che condividono la stessa scelta
individuale – e dunque una scelta morale. In tal modo, si è confuso l’antispecismo con il veganismo, cioè l’idea alternativa al presente con una pratica individuale,
invece di elaborare una strategia complessa e a lungo respiro che ci
permetta non solo di essere gli ingranaggi fuori posto della meccanica
sociale, ma anche la forza interna che smonta la mega-macchina per
ricostruirla in modo non oppressivo e volgerla ad altri fini.
[11]
In maniera non dissimile da coloro che parlano di “olocausto animale”,
facendo così perdere ogni specificità storica e politica alla Shoah.
Fonte:Asinus Novus
Fonte:Asinus Novus
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