Di Luca Manes/ CRBM
Insieme alla Shell e alla Chevron, l’Eni è una delle oil corporation
più attive in Nigeria, primo Paese esportatore di greggio dell’Africa
sub-sahariana con una produzione di 2,2 milioni di barili al giorno. A
dispetto della ricchezza del loro sottosuolo, le popolazioni dell’area
del Delta del Niger vivono in condizioni di estrema povertà, alle prese
con un crescente degrado ambientale e una costante militarizzazione del
territorio. In Nigeria ogni giorno si registrano perdite di petrolio
dagli oleodotti, mentre, nonostante una legge del 1979 e diversi
pronunciamenti delle corti locali, la pratica del gas flaring
(il bruciare in torcia il gas connesso al processo d’estrazione del
greggio) continua a essere adottata senza nessuno scrupolo. Sull’intero
territorio nazionale sono oltre 100 le torri che sprigionano in maniera
perenne lingue di fuoco che sputano diossina, benzene, sulfuri e
particolati vari. Tanto per fornire qualche dato, secondo delle Ong
locali dei 168 miliardi di metri cubici di gas bruciati ogni anno al
mondo, 23 (il 13 per cento) provengono dalla Nigeria. In termini di
ossido di carbonio, parliamo di 400 milioni di tonnellate, ovvero il 25
per cento del consumo annuo di gas degli Stati Uniti. Le piogge acide
conseguenza diretta del gas flaring sono tra le principali criticità di una situazione che ha ormai superato i livelli di guardia.
Basti
pensare che lo scorso agosto un rapporto dell’agenzia ambientale delle
Nazioni Unite, l’Unep (United Nations Environmental Programme) ha
certificato che per il solo spicchio di Delta occupato dal popolo Ogoni
serviranno 30 anni di bonifiche per riparare gli immensi danni causati
dalla Shell.
Tra i casi più eclatanti esaminati dagli esperti
dell’Onu c’è quello relativo alla comunità di Nisisioken Ogale, dove il
livello del benzene, elemento altamente cancerogeno, eccede di 900 volte
il limite previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il conto
iniziale presentato alla oil corporation anglo-olandese ammonta
a oltre un miliardo di dollari, ma le organizzazioni della società
civile nigeriana parlano dell’esigenza di uno stanziamento di fondi per
decine di miliardi per pulire l’intero Delta e mondarlo dalle
conseguenze delle attività di tutte le multinazionali.
Tra queste
ultime, come detto, c’è la compagnia del cane a sei zampe (per il 31 per
cento ancora di proprietà statale), il cui operato nel sud della
Nigeria durante l’assemblea degli azionisti in programma oggi a Roma è
stato l’oggetto delle critiche di Godwin Ojo, direttore e cofondatore di
Environmental Rights Action, tra le più importanti Ong del Paese
africano.
“Nonostante le sue dichiarazioni pubbliche, l’Eni ha fatto poco o nulla per ridurre il gas flaring”
ha dichiarato Godwin Ojo prima di entrare in assemblea. “Con la mia
organizzazione negli ultimi mesi siamo stati in grado di visitare varie
comunità impattate da sversamenti di impianti dell’Eni nello Stato di
Bayelsa. Purtroppo nei loro confronti non sono state accordate
compensazioni, né si è proceduto a bonificare i terreni e i corsi
d’acqua inquinati. Per quanto tempo ancora bisognerà assistere a questo
ecocidio senza che le compagnie intervengano” ha aggiunto Ojo.
Tale
situazione continua ad alimentare lo scontento delle comunità, che
inoltre lamentano la mancanza di aiuti e dialogo con l’Agip. Non a caso
in Nigeria è in crescita il numero di persone e organizzazioni che
chiedono lo stop alle trivellazioni e che il petrolio sia lasciato nel
sottosuolo. Alle multinazionali, rimarrebbe solo il compito di dare
inizio alle opere di bonifica. Prima che sia troppo tardi.
Da E-il Mensile
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