Di Francesca Dessì
Il Mali, come tutta l’Africa occidentale, ha accolto con sospiro di
sollievo l’esito delle elezioni presidenziali, che hanno visto la
vittoria di François Hollande e la sconfitta di Nicolas Sarkozy. Da
Bamako ad Abidjan, da Dakar a Tripoli, sono in molti che hanno
festeggiato l’uscita di scena di Sarkozy, considerato “un presidente
sempre sul piede di guerra”. La sua politica di ingerenza negli affari
interni dei Paesi africani, sfociata spesso in interventi militari con
l’obiettivo di piazzare le società francesi, come Areva e Elf Total, ha
destabilizzato e insanguinato negli ultimi cinque anni l’intera
regione dell’Africa occidentale e non solo, vedi la Libia.
Ma con l’ascesa di Hollande, l’Africa non si illude che la
“françafrique” possa finire. Ha infatti imparato la lezione dopo
l’elezione di Barack Obama, l’uomo del cambiamento, alla Casa Bianca,
che si è dimostrato alla pari di George W. Bush. Come scrive il giornale
burkinabè Fasozine, “è finita l’epoca in cui si credeva che la vittoria
della sinistra o della destra poteva cambiare in modo significativo le
relazioni tra l’Occidente e l’Africa”. Allo stesso tempo, l’Africa
chiede ad Hollande di porre rimedio ai danni causati da Sarkozy negli
ultimi mesi, come ad esempio in Mali. È ormai comprovato che l’Eliseo
abbia infiammato la ribellione tuareg del Movimento nazionale per la
liberazione dell’Azawad (Mnla), che ha conquistato insieme al gruppo
Ansar Edden il nord del Mali, e che stia esercitando una certa influenza
sulle decisioni della Comunità economica dell’Africa occidentale
(Cedeao – Ecowas). Di recente l’organismo africano invece di mobilitarsi
per ripristinare l’ordine nelle regioni settentrionali, dove diversi
gruppi armati stanno commettendo crimini contro l’umanità, continua a
guardare verso Bamako, dove si è appena instaurato un governo di
transizione.
Da una parte la Cedeao- Ecowas cerca il dialogo con i tuareg del Mnla e i
vari gruppi che affollano il nord, dove c’è una grave emergenza
umanitaria; dall’altra manda 600 soldati nella capitale maliana, dove la
situazione è tranquilla. Ancora meno chiaro è chi voglia la testa del
capitano Amadou Sanogo, capo dell’ex giunta, che lo scorso 30 gennaio è
stato vittima di un attacco – da molto definito tentativo di golpe - dei
paracadutisti della Guardia presidenziale. Secondo la ricostruzione
fatta dal Journal du Mali, il tentativo dei berretti rossi aveva
probabilmente per obiettivo l’eliminazione fisica di Sanogo, ma
quest’ultimo avrebbe avuto informazioni sufficienti sul piano che veniva
elaborato e sulla presenza di presunti mercenari stranieri – per lo più
ivoriani e burkinabè - che avrebbero dato man forte ai 300 uomini della
Guardia presidenziale.
Chi è che ha pagato i mercenari? Non è ancora chiaro, ma si fa strada
l’ipotesi che dietro all’attacco militare ci sia la Francia e la Cedeao-
Ecowas con l’intento di ritardare l’intervento nel nord e diffondere il
panico a Bamako. Intanto, la situazione nelle regioni settentrionali,
dove la Croce rossa internazionale ha aperto un corridoio umanitario, è
sempre più confusa. Secondo France presse, al Qaida nel Maghreb islamico
(Aqmi) occupa “una posizione dominate a Gao, Kidal e Timbuctù, grazie
alla sua alleanza con Ansar Eddine e all’arrivo nelle sue fila di
combattenti tunisini, libici e marocchini”. Ancora più clamore ha
suscitato la profanazione del mausoleo di Cheikh Sid Mahmoud ben Amar,
uno dei 333 santi venerati a Timbuctù, dichiarata patrimonio
dell’umanità dall’Unesco. Lo reso noto il sito All Africa, secondo cui
“quelli di Aqmi, appoggiati da Ansa Dine, hanno distrutto la tomba del
santo Sidi Mahmoud Ben Amar. Hanno dato alle fiamme il mausoleo”.
Notizia confermata dagli abitanti di Timbuctù che domenica sera hanno
protestato contro la profanazione.
L’oltraggio segue quello di qualche giorno fa, quando i gruppi armati
hanno cominciato a distruggere le statue che raffigurano Alfarouk, il
mitico cavaliere protettore da secoli della “perla del deserto” e dei
suoi abitanti. Sulla vicenda è intervenuto il governo di transizione
che ha espresso “indignazione” condannando un atto che viola “i precetti
dell’islam, religione di tolleranza”.
Da Rinascita
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