Di Pietro Veronese
La generazione
che sta invecchiando in questo confuso inizio di secolo è cresciuta in
un mondo non meno confuso, dominato da una formula composta da termini apparentemente inconciliabili. È la generazione figlia della "Guerra
Fredda". Per gli americani si trattava di una vera guerra contro il
comunismo, che andava combattuta e vinta, come accadde infine nel 1989.
L´America celebrava i suoi cold warriors: spie, diplomatici, ideologi,
come fossero soldati in uniforme cui mancava soltanto di stringere il
dito sul grilletto. Per gli europei, viceversa, l´accento era
soprattutto sul "freddo": mentre nelle scuole degli States si facevano
periodiche esercitazioni simulando un attacco nucleare, noi crescevamo piuttosto spensierati e vivevamo la guerra
fredda come il sinonimo di una pace tiepida. Questa profonda ambiguità,
inevitabilmente insita in un´espressione così male assortita, contribuì
a mantenere stabile per quasi mezzo secolo l´alleanza tra le due sponde
dell´Atlantico: combattevamo insieme la medesima guerra, anche se ciascuno aveva agio di farsene un´idea molto diversa.
Nuovo
secolo, nuovi problemi, nuova guerra. Ma lo stridore semantico,
l´ossimoro paradossale, resta; anzi, forse si rafforza. Adesso è infatti
il tempo della "guerra umanitaria", una formula che risponde a
un´esigenza antica quanto la guerra stessa: quella di giustificarla. Di
rendere accettabile la perdita di vite umane, le sofferenze dei
sopravvissuti, le devastazioni materiali. A ben vedere poi,
«l´interventismo militare umanitario è sempre esistito», ci ricorda
Carlo Jean in un libro lucidissimo da qualche giorno nelle librerie
(Guerre umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani, con
Germano Dottori, Dalai editore, pagg. 256, euro 17,50). L´autore sa di
cosa parla: è stato generale di corpo d´armata ed è riconosciuto come
uno dei massimi esperti italiani di strategia militare e di politica
della Difesa. Come «guerre umanitarie», ci racconta Carlo Jean, vennero
presentate per esempio le conquiste coloniali, che avevano lo scopo –
secondo i loro promotori – di liberare dalla «barbarie» i popoli
assoggettati.
Le opinioni pubbliche dei Paesi democratici – e le leggi fondamentali più avanzate, come
la Costituzione italiana – fanno sempre più fatica a sopportare l´idea
di una guerra. Per renderla accettabile, i governi hanno bisogno di
rivestirla d´umanitarismo. A uno statista come il compianto presidente
cèco Vaclav Havel – un uomo che aveva fatto dei diritti umani la
bandiera della sua vita – fu rimproverato di aver addirittura parlato,
a proposito dell´intervento Nato in Kosovo del 1999, di «bombardamenti
umanitari». Egli negò sdegnato, dicendo di avere troppo «buon gusto» per
una formula così grottesca. A ben vedere però, in un´intervista a Le Monde aveva affermato che i raid aerei della Nato
avevano «carattere esclusivamente umanitario»: l´espressione che gli
era stata attribuita era una sintesi maliziosa, ma non infondata.
Sempre più spesso la «guerra umanitaria» non è soltanto un falso ideologico rifilato dai governi ai loro elettori: è anche una richiesta pressante delle opinioni pubbliche, ulcerate dallo spettacolo della sofferenza altrui in diretta tv. L´intervento militare per porre fine alla guerra
civile in Libia l´anno scorso, per esempio, fu visto almeno all´inizio
con favore da molti, che andavano chiedendo a gran voce di «fare
qualcosa» per porre fine al martirio della popolazione. Una discussione analoga è in corso oggi riguardo alla Siria, ma con molto maggiore cautela; il che evoca subito la più
comune critica alle «guerre umanitarie», e cioè di essere una foglia di
fico per coprire gli interessi degli Stati. In Libia l´interesse vero
era il petrolio; in Siria l´interesse non c´è. Senza dimenticare, come
scrive spietatamente Jean, che «in tutte le guerre civili, la vittoria
trasforma le ex-vittime in carnefici». E infatti l´immagine che più di
ogni altra ci è rimasta in mente delle violenza libiche è il volto
insanguinato di Gheddafi morente.
Il che
non toglie che l´elenco delle guerre presunte umanitarie vada
allungandosi anno dopo anno. Il diritto internazionale ha in parte
tentato di adeguarsi, in parte è causa di questo proliferare. Dopo la Guerra dei Trent´anni, nel 1648, i monarchi europei adottarono con la Pace
di Westfalia il principio che ogni sovrano era padrone all´interno dei
suoi confini. Quel concetto ha retto per 350 anni ma è andato
definitivamente in crisi con la fine della Guerra Fredda. I potenti del mondo ancor oggi si rimproverano di non aver fatto nulla –
e sarebbe bastato molto poco – per impedire il genocidio del Ruanda nel
1994. Negli ultimi anni le Nazioni Unite hanno in parte sostituito il
principio della non interferenza con la «responsabilità
di proteggere», o Responsability to Protect, o R2P: se una – o parte di
una – nazione inerme è minacciata di sterminio, è dovere degli altri
Stati usare le armi per impedirlo. Casi di questo tipo continuano a
proporsi qui e là nel mondo: la storia non smette di interpellarci con le sue tragedie. E i suoi orrori.
Fonte:
La Repubblica
Da Arianna Editrice
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