La democrazia si è volatilizzata...

mag 25, 2012 0 comments
Di Andrea Papi
A destra come a sinistra, tra le forze sindacali come quelle partitiche, tra i commentatori e gli opinion-maker, tra gli operatori sociali e quelli economici, con sempre più frequenza tutti si richiamano con forza e insistenza alla democrazia, invocando i suoi valori e i suoi presupposti come garanzia di libertà. Continuamente evocata è però sempre più lontana, irraggiungibile. Ormai la democrazia è ridotta a una mera astrazione, vanificata continuamente dalle procedure, dalle strutturazioni e dalle modalità d’intervento di questa cosiddetta democrazia rappresentativa.
Cos’è successo alla democrazia? Niente di particolare, semplicemente mentre la si afferma e la si invoca con vigore si continua ad evitare di realizzarla. Non tanto perché sia irrealizzabile, quanto perché chi ha usurpato il potere in suo nome in verità non ha mai avuto l’intenzione né la volontà di provare seriamente a vederla operante. Per carità, non che personalmente sia convinto che la democrazia sia una specie di panacea di tutti i mali politici, come invece ipocritamente sostengono i suoi esaltatori. Anzi! Solo che essendo fermamente convinto e consapevole di tutti i suoi limiti, intrinseci e non, penso anche di sapere che se venisse realmente applicata conterrebbe alcuni aspetti politici che non possono non interessare i libertari.
Chiariamoci innanzitutto su che cosa s’intende quando si parla di democrazia. Il concetto che esprime ci riporta agli albori della politica occidentale, quando nella Grecia antica fu pensata come un metodo di governo. Governo inteso come funzione sociale, cioè la necessità di gestire ciò che riguarda l’insieme sociale, non come struttura di comando, come normalmente s’intende oggi. Aristotele fu molto chiaro e la definisce come una delle tre forme possibili di governo: la monarchia, governo di uno solo (il monarca), l’oligarchia, governo di pochi (l’aristocrazia è una variante dell’oligarchia), la democrazia, governo di tutti, cioè del popolo (il demos). La definizione originaria, che sostanzialmente si ferma qui, ne chiarisce con semplice nettezza il senso lato e profondo insieme. Si può cioè parlare di democrazia quando tutti sono veramente coinvolti nella gestione della cosa pubblica, che appunto riguarda tutti. Dal punto di vista teorico l’autogestione, o autogoverno, è infatti uno dei modi di gestione sociale che si riconduce ai presupposti della democrazia, proprio perché tende a far si che la gestione della cosa pubblica sia la risultante del coinvolgimento diretto di tutti, attraverso metodologie, appunto, di democrazia diretta.
 L’applicazione mistificata della rappresentatività
Purtroppo rispetto al significato originario storicamente si sono innestate una serie di concettualità e di tecniche gestionali che ne hanno snaturato completamente il senso, fino a trasformarla in qualcosa di addirittura contrario, anche se si continua strumentalmente a chiamarla nello stesso modo. Con l’avvento della modernità la democrazia è stata subdolamente identificata con la libertà, quando spesso, proprio per come è stata impostata e per come viene esercitata e funziona, è diventata un mezzo per sopprimerla. Siccome sono il livello e il momento decisionali che fanno comprendere la qualità della partecipazione effettiva, guardiamo come è stata realizzata. Invece di sperimentare modalità che permettessero un’effettuale partecipazione di tutti al momento delle decisioni che riguardano tutti, riuscendo ad estorcere il consenso popolare le oligarchie al comando hanno messo in atto modalità funzionali ad un esercizio totalmente autoritario del potere. Di fatto hanno volutamente escluso un’autentica partecipazione popolare dal basso, mentre al contrario il senso originario della democrazia la reclama e la rivendica.
La chiave di volta c’è stata con l’applicazione mistificata della rappresentatività. Concepita nel medioevo per trovare modalità applicative in grado di superare l’impasse dei grandi numeri di masse partecipanti, la rappresentanza fu pensata come delega con mandato. Ogni singola comunità affidava ad uno o più rappresentanti il compito di portare ad entità sociali più vaste le decisioni prese al suo interno. Era un mandato preciso che decadeva automaticamente se non veniva rispettato. La rappresentanza è perciò sorta per trovare un efficace e coerente strumento funzionale a portare avanti istanze decise collettivamente. In questa pratica emerge la visione che è indispensabile garantire di controllare dal basso chi è fornito di una delega, in quanto tale provvisoria. Esattamente all’opposto di come funziona ora, dove emerge la preoccupazione dei vertici di controllare dall’alto l’accettazione di decisioni alle quali il basso è estraneo.
Questa preoccupazione autoritaria dell’esercizio del potere è stata rafforzata con la scelta strutturale di dar sempre ragione alla maggioranza, al punto che di norma ormai la democrazia è identificata con la decisione a maggioranza. Eppure è solo una convenzione procedurale, una delle possibili tecniche decisionali, seppur di grande importanza. A ben riflettere ci si accorge che è una forzatura pensarla come intrinsecamente necessaria al funzionamento democratico. Oggi le decisioni che riguardano tutti vengono prese dagli eletti senza consultare gli elettori e sono imposte dalle strutture autoritarie di governo. Così abbiamo che, mentre si dichiara che le decisioni vengono prese dalla maggioranza della popolazione, solo una ristrettissima minoranza di delegati senza alcun mandato decidono, con una maggioranza tutta interna a loro, ciò che riguarda l’intera società. È un accorpamento quantitativo di individui considerati numeri indifferenziati, che contrasta col principio democratico e umanista secondo cui ogni essere umano ha valore.
Sta proprio in questo inghippo, cioè nella condizione strutturale di una finta rappresentanza, la contraddizione più stridente che fa si che le vigenti democrazie siano diventate in realtà delle non/democrazie, dove la democrazia di forma è completamente deprivata di senso nell’atto procedurale, nel momento fondamentale dell’applicazione. La democrazia applicata annulla ogni potenzialità democratica. La delega che oggi viene data attraverso il voto è dichiaratamente senza alcun mandato, mentre è solo una delega di potere.
 Democrazia autoritaria? Non è una novità
Oggi si vota per eleggere chi dovrà decidere per noi su di noi. Col voto si eleggono gli oligarchi che esercitano un potere incontrollato sugli elettori, perché prenderanno delle decisioni che verranno imposte a tutti (sia chi li ha eletti sia chi non li vorrebbe) senza consultare nessuno. Come tutti i governi autoritari esercitano perciò un potere d’imposizione. Una volta il re riceveva la legittimità di governare da dio e, incensato dalla casta dei sacerdoti, esercitava un potere assoluto a sua discrezione. Oggi il popolo elegge un apparato governativo che, non avendo nessun reale mandato, una volta eletto esercita il suo potere senza nessun controllo dal basso. Infatti non deve rendere conto che a se stesso e alle leggi che emana e rende esecutive in quanto apparato. Tra il re e il parlamento nella sostanza c’è solo la differenza che il parlamento è eletto e il re no. Ma rispetto al piano del comando e del potere decisionale la sostanza varia di pochissimo, con solo qualche differenza formale nelle norme di procedura.
Oggi più che mai la democrazia vigente è a tutti gli effetti una non/democrazia, perché è tutta improntata sulla tensione a governare e comandare (la famosa governabilità) dall’alto, avendo messo completamente da parte la partecipazione popolare alle decisioni. Ha avuto completamente ragione Schumpeter, che nella prima metà del secolo scorso previde la “democrazia dei leader” come sbocco inevitabile delle democrazie nelle società attuali. Egli era convinto, non a caso, che la complessità delle società contemporanee rendesse impossibile, ma anche inutile, una concreta partecipazione popolare alle decisioni. Per Schumpeter la democrazia possibile ed auspicabile deve limitarsi a designare chi decide e, nell’epoca della contemporaneità, si riduce ad una competizione tra leader, il cui vincitore, una volta ottenuto il consenso necessario, eserciterà il governo, concepito in tal modo come vera funzione di comando politico.
Questa descrizione stigmatizza in modo efficacissimo il divenire degenerativo in atto della democrazia vigente, che da un punto di vista libertario corrisponde ad un annichilimento quasi totale degli assunti originari. Egemonizzata culturalmente da una visione della politica spostata completamente sul versante autoritario, la democrazia contemporanea applicata si è talmente deprivata di senso da essersi trasformata in un’integrale non/democrazia, autoreferenziale ed autogiustificativa.
C’è chi l’ha chiamata “democrazia autoritaria”, perché vi prevale l’elemento d’autorità rispetto a quello popolare. Ma è una critica insufficiente. L’aspetto più pregnante infatti è che l’unico momento di partecipazione dal basso rimasto in vigore è quello delle elezioni. Ma anche questo è stato reso del tutto funzionale a non partecipare ai momenti decisionali, bensì a scegliere chi deve decidere per tutti. La struttura procedurale in vigore è un atto di esproprio della decisionalità popolare, pensata per permettere all’elite di governare d’autorità escludendo il demos.
 A Spezzano Albanese, per esempio
È il trionfo dell’assenza di democrazia. Gli effetti sono devastanti, soprattutto sul piano di una coscienza e una consapevolezza civili. La coscienza più diffusa, divenuto il lemma prevalente, è che in democrazia “decidiamo noi chi ci deve comandare”. Per sentir parlare di un’effettiva partecipazione si è dovuto inventare una modalità inusuale, considerata innovativa, cui si è dato il nome di “democrazia partecipativa”, ammettendo così implicitamente che nelle “normali” democrazie la partecipazione non è di casa. Ma anche in questa modalità, nata e sperimentata a Porto Allegre in Brasile, la partecipazione non è strutturale. È un optional. I comitati popolari infatti sono consultabili dalle istituzioni (ma non sono tenute a farlo) le quali, a loro volta e a loro discrezione, decideranno se tener conto del parere dei comitati. Del resto le istituzioni autoritarie non riescono a ragionare in termini di autentica democrazia e non avrebbero mai accettato organismi che potrebbero mettere in discussione le loro decisioni.
Guardiamo per esempio lo scontro tra popolazione e istituzioni statali che si sta consumando in Val di Susa da più di vent’anni. La popolazione ha documentato ampiamente, molto più delle istituzioni, le ragioni del suo diniego alla costruzione del TAV. Ma lo stato pone un problema politico di legittimità di comando che dev’essere rispettato, per cui si ritiene autorizzato ad usare la forza. Le ragioni per cui si vuol costruire quella tratta ferroviaria, che deturperà l’equilibrio ecoambientale dell’intera valle, sono sostanzialmente di business e di egemonia politica. Solo che in questo caso la popolazione ha deciso, praticamente compatta, di non essere espropriata della sua volontà. Nella non/democrazia lo stato non può permetterlo e si sta sfiorando la guerra civile.
Al contrario a Spezzano Albanese, in provincia di Cosenza, da decenni si sta consumando un’esperienza di democrazia diretta efficace e funzionante, che le istituzioni locali sono state costrette ad accettare in modo informale senza riconoscerla ufficialmente. Qui è riuscita a prevalere la forza della volontà popolare, sopportata e subita dalla non/democrazia. La Federazione Municipale di Base (FMB) interviene su tutte le questioni dell’amministrazione comunale basandosi sul principio della democrazia diretta in piena autonomia dall’amministrazione stessa e da ogni formazione politica e partitica. Controlla ogni decisione comunale presa e interviene in modo deciso per contrastarle quando non le condivide. È uno strumento d’intervento diretto e di lotta per far trionfare dal basso la volontà popolare. È un’applicazione creativa e autentica dei presupposti dell’autogestione nell’era della non/democrazia trionfante.

Da A-Rivista Anarchica

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