Semantica dell’inganno

apr 16, 2012 0 comments
 Di Alessandra Colla
Devo darvi due notizie — una buona e una cattiva.
Cominciamo da quella cattiva: la lobby della ricerca c.d. scientifica si prepara a impestare le nostre città con cartelloni e manifesti pubblicitari a favore della ricerca, lanciando una campagna in grande stile «insieme a voi per fare un impatto positivo su tutto il mondo, in piu di 30 paesi, e nella tua communita’» — come si legge, in un italiano un po’ approssimativo, sull’home page del sito www.ricercasalva.it, evidentemente ancora “under construction” (c’è anche una sezione intitolata rozzamente «Sei contro ricerca animale?», ma è vuota). Sono tanti, hanno i soldi e si appoggiano a istituzioni che il grande pubblico considera prestigiose.
Quella buona, invece, è che se pensano di dover uscire allo scoperto è perché si sentono minacciati, e per di più cercano di controbattere alle serie e numerose accuse portate contro le loro pratiche antiquate proponendo un messaggio debole e vecchio.
Vediamo un po’ i dettagli.
La foto del manifesto è questa:

Come si vede, l’immediatezza del messaggio è realmente di grande impatto — per chi? Ma per tutti quelli che, non conoscendo nulla dell’iceberg “ricerca scientifica”, vivono di rendita sul vecchio, vecchissimo argomento principe del bravo vivisettore: “preferisci sacrificare un topo o salvare tuo figlio?”.
Gli ingredienti per una vivace scossa emotiva ci sono tutti: il bambino, soggetto/oggetto par excellence di ogni pubblicità ovvero l’affetto più caro (per la verità le statistiche del 2010 registrano, per l’Italia, un infanticidio ogni 20 giorni), a fronte dell’odioso topo ( che si tratti di una candida cavia innocua non scalfisce minimamente l’immaginario collettivo che associa ogni muride al temibile Rattus rattus portatore della peste nera) incubo di quasi ogni donna e ogni madre.
È chiaro che i pubblicitari conoscono il loro mestiere — vendere il prodotto .
Da non sottovalutare nemmeno il link di riferimento, con un nome davvero ben trovato: “ricerca salva”. Ovvero la ricerca ti salva, ma tu che guardi, o viandante, devi salvare la ricerca se vuoi esserne salvato. Che, tradotto, significa “caccia la lira”. Obiettivo veramente primario per ogni istituto di ricerca, come sappiamo da tempo, e che costituisce il messaggio occulto.
Il messaggio palese, invece, è la quintessenza dell’antropocentrismo politicamente corretto: è in gioco la vita dell’essere umano, per salvare la quale s’impone il sacrificio di una vita non-umana. E la scritta non dice “un giorno ti potrebbe salvare la vita”, bensì “un giorno ti potrei salvare la vita”: è l’animale stesso a dichiararsi disposto a donarsi per la tutela di quel bene “superiore” che è la vita umana — tutto , a fronte del nulla rappresentato, per contro, dalla mera animalità. Nessuno meglio di Marguerite Yourcenar, a mio avviso, ha saputo dirlo meglio cogliendo «quell’aspetto sconvolgente dell’animale che non possiede niente, tranne la propria vita, che così spesso gli prendiamo» .
Ma di quale animale si tratta, qui? Del topo. Che un po’ ci è così familiare nelle vesti di Topolino, Jerry, Pixie&Dixie, Fievel, Bianca&Bernie; e un po’ merita, in qualche modo, di essere sacrificato per quella sua parentela (ah, Linneo…) con l’infelice Rattus rattus. Che si offra in sostituzione della vittima prescelta, dunque, è cosa buona giusta doverosa e salutare: come peraltro insegnano le radici della cultura occidentale — l’agnello che salva Isacco dal coltello di Abramo, o la cerva che salva Ifigenia dal coltello di Agamennone (e Lucrezio, lucido e puntualissimo, chiosa “Tantum religio potuit suadere malorum” , quali e quanti mali ha potuto suggerire la religione…).
Del resto la storia dell’umanità rigurgita di sacrifici animali, immolati su altari d’ogni tipo per celebrare vittorie, scongiurare sconfitte, espiare colpe o invocare favori — la predilezione di Jahvé per l’odore del sangue è imbarazzante forse più di quella del colonnello Kilgore per l’odore del napalm al mattino. Il che sembra aver fornito all’ homo occidentalis la legittimazione ideale per continuare, anche in questo nostro ancor giovane XXI secolo, a immolare vittime non-umane sull’altare della Scienza.
Ecco, questo sì che è preoccupante: considerare la Scienza (con la maiuscola, si noti) alla stregua di una divinità terribile ma giusta alla quale offrire quotidianamente innumerevoli sacrifici per salvarci la pelle. Non, si badi, per assicurarci la vita eterna nell’aldilà — oh no. Ma proprio per illudersi di sconfiggere la morte e tentare di prolungare il più possibile questa vita terrena, bene materiale quant’altri mai, prontissimi a infischiarcene della salute della nostra anima immortale nonché dello strazio di infiniti esseri viventi. (Io credo che l’Occidente cristiano in tutte le sue declinazioni dovrebbe interrogarsi su questa contraddizione che la dice lunga sulla fragilità di certe scelte).
Ma questa atroce divinizzazione della scienza non rappresenta forse la sconfitta di ogni illuminismo, e insieme il trionfo di quell’oscurantismo che dopo il 1789 si credeva di aver cacciato dalla porta e che subdolamente è invece rientrato dalla finestra? “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo [...] con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio” ? Urge, s’impone, necessita imperativamente una nuova coscienza, una nuova consapevolezza e l’assunzione di nuove responsabilità.
Torniamo al topo, scelto non a caso. Perché sappiamo benissimo che gli animali utilizzati (sono o non sono “utensili animati” al pari degli schiavi, come diceva il sommo Aristotele che tanto piacque a Tommaso d’Aquino?) sono topi, sì, ma anche cani, gatti, scimmie (che sono primati come noi), uccelli, suini, ovini, equini, rettili, pesci — i ricercatori adempiendo così, in modo non eccessivamente arbitrario, l’antica missione: «dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi, 1:28).
Ma naturalmente il topo, anche se è una cavia e non un topo di fogna, è molto meno carino di un cane o di un gatto: e si è più disposti a tollerare le sofferenze di quello piuttosto che di questi. (Anche Françoise Marie Martin, moglie di Claude Bernard, celebre fisiologo e campione della medicina sperimentale che l’aveva sposata per interesse nel 1845, tollerava a malincuore le pratiche vivisettorie del marito su topi e rane. Però quando il galantuomo arrivò a vivisezionare pure il cane di casa prese le figlie e se ne andò, nel 1869, trascorrendo il resto della sua vita a battersi contro questa pratica).
È probabilmente per questo che il nervosismo sale quando l’attenzione dell’opinione pubblica viene portata sugli allevamenti di cani destinati alla vivisezione; ed è per questo che risulta così difficile indurre l’uomo della strada a ritenere meritevoli di maggior considerazione animali diversi da cani e gatti.
Tirando le somme, però, sembra di poter concludere che noi, il popolo antispecista, non siamo messi poi così male. E che anzi stiamo lavorando piuttosto bene, se la lobby vivisettrice si sente in dovere di cercare approvazione per le sue pratiche biasimevoli (oltre che perlopiù fuorvianti, come sappiamo).
In concreto, cosa possiamo fare? Parola d’ordine, non abbassare la guardia. E poi: continuare a produrre materiale qualificato, non cedere alle emozioni, non rispondere alle provocazioni, restare distaccati e non dimenticare mai che sotto quei camici bianchi e quei sorrisi stereotipati si celano, intatti attraverso i secoli e i millenni, i portatori di ogni oppressione. Sarà solo questo che potrà salvare la vita di tutti, umani e non-umani.

Fonte:Asinus Novus

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