Di Alessandra Colla
Devo darvi due notizie — una buona e una cattiva.
Cominciamo da quella cattiva: la lobby della ricerca c.d. scientifica
si prepara a impestare le nostre città con cartelloni e manifesti
pubblicitari a favore della ricerca, lanciando una campagna in grande stile «insieme a voi per fare un impatto positivo su tutto il mondo, in piu di 30 paesi, e nella tua communita’»
— come si legge, in un italiano un po’ approssimativo, sull’home page
del sito www.ricercasalva.it, evidentemente ancora “under construction”
(c’è anche una sezione intitolata rozzamente «Sei contro ricerca
animale?», ma è vuota). Sono tanti, hanno i soldi e si appoggiano a
istituzioni che il grande pubblico considera prestigiose.
Quella buona, invece, è che se pensano di dover uscire allo scoperto è
perché si sentono minacciati, e per di più cercano di controbattere
alle serie e numerose accuse portate contro le loro pratiche antiquate
proponendo un messaggio debole e vecchio.
Vediamo un po’ i dettagli.
La foto del manifesto è questa:
Come si vede, l’immediatezza del messaggio è realmente di grande
impatto — per chi? Ma per tutti quelli che, non conoscendo nulla
dell’iceberg “ricerca scientifica”, vivono di rendita sul vecchio,
vecchissimo argomento principe del bravo vivisettore: “preferisci
sacrificare un topo o salvare tuo figlio?”.
Gli ingredienti per una vivace scossa emotiva ci sono tutti: il bambino, soggetto/oggetto par excellence di
ogni pubblicità ovvero l’affetto più caro (per la verità le statistiche
del 2010 registrano, per l’Italia, un infanticidio ogni 20 giorni), a
fronte dell’odioso topo ( che si tratti di una candida cavia innocua non
scalfisce minimamente l’immaginario collettivo che associa ogni muride
al temibile Rattus rattus portatore della peste nera) incubo di quasi ogni donna e ogni madre.
È chiaro che i pubblicitari conoscono il loro mestiere — vendere il prodotto .
Da non sottovalutare nemmeno il link di riferimento, con un nome
davvero ben trovato: “ricerca salva”. Ovvero la ricerca ti salva, ma tu
che guardi, o viandante, devi salvare la ricerca se vuoi esserne
salvato. Che, tradotto, significa “caccia la lira”. Obiettivo veramente
primario per ogni istituto di ricerca, come sappiamo da tempo, e che
costituisce il messaggio occulto.
Il messaggio palese, invece, è la quintessenza dell’antropocentrismo
politicamente corretto: è in gioco la vita dell’essere umano, per
salvare la quale s’impone il sacrificio di una vita non-umana. E la
scritta non dice “un giorno ti potrebbe salvare la vita”, bensì “un giorno ti potrei salvare
la vita”: è l’animale stesso a dichiararsi disposto a donarsi per la
tutela di quel bene “superiore” che è la vita umana — tutto , a fronte del nulla
rappresentato, per contro, dalla mera animalità. Nessuno meglio di
Marguerite Yourcenar, a mio avviso, ha saputo dirlo meglio cogliendo «quell’aspetto sconvolgente dell’animale che non possiede niente, tranne la propria vita, che così spesso gli prendiamo» .
Ma di quale animale si tratta, qui? Del topo. Che un po’ ci è così
familiare nelle vesti di Topolino, Jerry, Pixie&Dixie, Fievel,
Bianca&Bernie; e un po’ merita, in qualche modo, di essere
sacrificato per quella sua parentela (ah, Linneo…) con l’infelice Rattus
rattus. Che si offra in sostituzione della vittima prescelta, dunque, è
cosa buona giusta doverosa e salutare: come peraltro insegnano le
radici della cultura occidentale — l’agnello che salva Isacco dal
coltello di Abramo, o la cerva che salva Ifigenia dal coltello di
Agamennone (e Lucrezio, lucido e puntualissimo, chiosa “Tantum religio potuit suadere malorum” , quali e quanti mali ha potuto suggerire la religione…).
Del resto la storia dell’umanità rigurgita di sacrifici animali,
immolati su altari d’ogni tipo per celebrare vittorie, scongiurare
sconfitte, espiare colpe o invocare favori — la predilezione di Jahvé
per l’odore del sangue è imbarazzante forse più di quella del colonnello
Kilgore per l’odore del napalm al mattino. Il che sembra aver fornito
all’ homo occidentalis la legittimazione ideale per
continuare, anche in questo nostro ancor giovane XXI secolo, a immolare
vittime non-umane sull’altare della Scienza.
Ecco, questo sì che è preoccupante: considerare la Scienza (con la
maiuscola, si noti) alla stregua di una divinità terribile ma giusta
alla quale offrire quotidianamente innumerevoli sacrifici per salvarci
la pelle. Non, si badi, per assicurarci la vita eterna nell’aldilà — oh
no. Ma proprio per illudersi di sconfiggere la morte e tentare di
prolungare il più possibile questa vita terrena, bene materiale
quant’altri mai, prontissimi a infischiarcene della salute della nostra
anima immortale nonché dello strazio di infiniti esseri viventi. (Io
credo che l’Occidente cristiano in tutte le sue declinazioni dovrebbe
interrogarsi su questa contraddizione che la dice lunga sulla fragilità
di certe scelte).
Ma questa atroce divinizzazione della scienza non rappresenta forse
la sconfitta di ogni illuminismo, e insieme il trionfo di
quell’oscurantismo che dopo il 1789 si credeva di aver cacciato dalla
porta e che subdolamente è invece rientrato dalla finestra? “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo [...] con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio” ?
Urge, s’impone, necessita imperativamente una nuova coscienza, una
nuova consapevolezza e l’assunzione di nuove responsabilità.
Torniamo al topo, scelto non a caso. Perché sappiamo benissimo che gli animali utilizzati
(sono o non sono “utensili animati” al pari degli schiavi, come diceva
il sommo Aristotele che tanto piacque a Tommaso d’Aquino?) sono topi,
sì, ma anche cani, gatti, scimmie (che sono primati come noi), uccelli,
suini, ovini, equini, rettili, pesci — i ricercatori adempiendo così, in
modo non eccessivamente arbitrario, l’antica missione: «dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi, 1:28).
Ma naturalmente il topo, anche se è una cavia e non un topo di fogna,
è molto meno carino di un cane o di un gatto: e si è più disposti a
tollerare le sofferenze di quello piuttosto che di questi. (Anche
Françoise Marie Martin, moglie di Claude Bernard, celebre fisiologo e
campione della medicina sperimentale che l’aveva sposata per interesse
nel 1845, tollerava a malincuore le pratiche vivisettorie del marito su
topi e rane. Però quando il galantuomo arrivò a vivisezionare pure il
cane di casa prese le figlie e se ne andò, nel 1869, trascorrendo il
resto della sua vita a battersi contro questa pratica).
È probabilmente per questo che il nervosismo sale quando l’attenzione
dell’opinione pubblica viene portata sugli allevamenti di cani
destinati alla vivisezione; ed è per questo che risulta così difficile
indurre l’uomo della strada a ritenere meritevoli di maggior
considerazione animali diversi da cani e gatti.
Tirando le somme, però, sembra di poter concludere che noi, il popolo
antispecista, non siamo messi poi così male. E che anzi stiamo
lavorando piuttosto bene, se la lobby vivisettrice si sente in dovere di
cercare approvazione per le sue pratiche biasimevoli (oltre che
perlopiù fuorvianti, come sappiamo).
In concreto, cosa possiamo fare? Parola d’ordine, non abbassare la
guardia. E poi: continuare a produrre materiale qualificato, non cedere
alle emozioni, non rispondere alle provocazioni, restare distaccati e
non dimenticare mai che sotto quei camici bianchi e quei sorrisi
stereotipati si celano, intatti attraverso i secoli e i millenni, i
portatori di ogni oppressione. Sarà solo questo che potrà salvare la
vita di tutti, umani e non-umani.
Fonte:Asinus Novus
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