Di Giorgio Cattaneo
Allarme “antipolitica”: di fronte al verdetto dei sondaggi, ora la casta ha paura. Bersani, alleato di Berlusconi nel
sostegno al governo Monti, finge di stupirsi del successo annunciato
per il movimento di Beppe Grillo. E persino Vendola, a metà del guado –
tra la foto-ricordo del summit di Vasto e la tentazione di smarcarsi dal
vecchio centrosinistra – oggi taccia di “populismo” l’ex comico
genovese. Il momento è cruciale: Monti sta smantellando quel che resta
del nostro Stato sociale, inaugurando una restaurazione autoritaria
epocale. E alla disaffezione degli italiani – solo uno su due alle urne,
stando alle intenzioni di voto – si aggiunge anche il disgusto per la
tangentopoli leghista, mentre chi ieri strillava contro le cricche e le
caste oggi sostiene il “governo dei banchieri” insieme a Silvio Berlusconi.
Nel
mirino nella casta impaurita finisce il bersaglio più grosso, quel
Grillo che già alle ultime regionali rovinò la festa ai capi dei grandi
partiti: in Piemonte,
elettori di sinistra che mai avrebbero votato una seconda volta per il
centrosinistra uscente, piuttosto che premiare Mercedes Bresso o restare
a casa misero la croce sulla lista di Grillo, che fece il pieno in
valle di Susa raccogliendo la protesta No-Tav e contribuì a consegnare
la Regione al centrodestra; peccato che i capi delle grandi coalizioni,
in gran segreto, si fossero già accordati in anticipo: comunque fosse
andato il voto regionale, il vincitore non avrebbe messo mano a nessuno
dei maxi-appalti già programmati, dal mega-inceneritore alla linea Tav
Torino-Lione. Una cosa era certa: le “grandi decisioni” siglate nelle
segrete stanze non sarebbero mai state “minacciate” dalla reale volontà
democratica dei cittadini-elettori.
Altro
grande banco di prova, i referendum del giugno 2011: alla spettacolare
sollevazione civile in favore dei beni comuni ha fatto seguito, in modo
pressoché automatico, il commissariamento definitivo del governo, dietro
al quale i grandi partiti si sono messi al riparo, nel timore che la politica potesse
tornare prerogativa dei cittadini. Di qui la filosofia dell’emergenza, i
tagli più drastici, l’abolizione del dibattito e il ricorso sistematico
alla polizia antisommossa per “dialogare” col dissenso. I signori dei
partiti temono Grillo perché è l’esponente più visibile di quella che,
per comodità, chiamano “antipolitica”: l’ex comico ha costruito una
struttura all’americana, personalistica, forte di un marketing efficace.
Il suo limite: diffidare di qualsiasi alleanza. Procedono quindi in
ordine sparso gli altri outsider: da Giulietto Chiesa, che attraverso il
laboratorio politico “Alternativa” propone da tempo la creazione di un
cartello programmatico, esteso
al movimento No-Debito, fino al gruppo di Ugo Mattei, battagliero
leader del movimento referendario per l’acqua pubblica, passando per
dirigenti della Fiom come Giorgio Cremaschi.
Movimenti,
network, intellettuali prestigiosi: pronti a mettere alle corde una
casta di potere nella quale ormai si riconosce meno del 50%
dell’elettorato: il maggiore dei vecchi partiti, se va bene, rappresenta
un italiano su dieci. E gli altri? Se riuscissi a mobilitare l’oceano
degli astensionisti, dice Grillo con una battuta, potrei addirittura
diventare il primo partito e quindi aspirare direttamente al governo. Se
davvero alle prossime amministrative il “Movimento 5 Stelle”
raccoglierà quel successo vaticinato dagli ultimi sondaggi, scrive Peter
Gomez sul “Fatto Quotidiano”, questo sarà dovuto anche al voto di protesta, ma «non basta per bollare i “5 Stelle” come espressione dell’anti-politica,
come fanno gli spaventati Pierluigi Bersani e Niki Vendola o, su quasi
tutti i giornali, i grandi commentatori del secolo scorso», tra cui
persino Gad Lerner.
«Siamo messi proprio male – scrive Lerner nel suo blog – se, in cerca di un’alternativa credibile alla dissoluzione del sistema politico, i mass media italiani
non trovano di meglio che riesumare il fantasma di Beppe Grillo»,
ovvero «la più innocua delle pseudoalternative di sistema, l’illusione
di votare “diverso” per continuare a vivere nella stessa melma». Secondo
Lerner, l’affannosa ricerca del nuovo si risolve in una scorciatoia
priva di credibilità, «perché nessuno crede davvero che Grillo in
Parlamento o addirittura al governo rappresenti più di un’imprecazione,
di uno sberleffo: nessuno gli affiderebbe i destini della sua famiglia».
Davvero? Gomez non la pensa così: «Le scelta di rinunciare ai
finanziamenti pubblici, di mettere un tetto al numero di candidature
consecutive, la presenza di programmi precisi, sono un fatto politico. Così come sono statepolitica, con la P maiuscola, le raccolte di firme per le leggi d’iniziativa popolare che il parlamento ha scandalosamente ignorato».
La
più forte polemica con Grillo non proviene però dalla casta dei partiti
o dai “commentatori del secolo scorso”, ma da un outsider totale, Paolo
Barnard, grande giornalista messo al bando dai media dopo
la polemica con Milena Gabanelli sulla mancata tutela legale per i suoi
scomodi servizi su “Report”. «Ok, collaboro con Beppe Grillo», annuncia
Barnard nel suo seguitissimo blog,
ma solo quando il leader del “Movimento 5 Stelle” «si scuserà per aver
depistato gli italiani per 15 anni dal più devastante pericolo per la democrazia che l’Italia abbia mai affrontato nel dopoguerra, e che oggi infatti ci sta distruggendo, per sbraitare contro il ladro di polli Berlusconi,
a tutto vantaggio dei suoi spettacoli, Dvd, merchandising, incassi,
fama». La posizione di Barnard è nota: il “rigore” che ci viene imposto
non è figlio di una casuale contingenza economica, ma di un piano
“golpista” dell’alta finanza,
pianificato per moltiplicare profitti sulla nostra pelle col sequestro
della sovranità monetaria e l’instaurazione di una “dittatura dei poteri forti”, che ora ci domina anche giuridicamente attraverso l’Unione Europea.
Barnard
accusa Grillo di aver ignorato il suo clamoroso saggio-denuncia, “Il
più grande crimine”, in cui profetizzava quello che sta avvenendo, e che
ora «porta la gente a darsi fuoco, a gettarsi dai balconi, le
pensionate a uccidersi, i precari a disperarsi senza uscita». Problema:
come riscattare i diritti di
cittadinanza, se poi qualsiasi nuovo governo dovrà fare i conti col
cappio europeo del “Fiscal Compact”, che – insieme al pareggio di
bilancio in Costituzione – impedirà agli Stati di continuare a investire
denaro pubblico in favore dei cittadini? Di questo la nuova politica dovrà
cominciare a parlare, in modo esplicito: «Se fossi il capo del governo –
dice Giulietto Chiesa – invece di fare anticamera dalla Merkel e da
Sarkozy volerei subito ad Atene, a Dublino, a Madrid e a Lisbona, poi
andrei in delegazione a Bruxelles e direi, semplicemente: signori, il
debito che ci imponete è illegale, quindi noi non lo pagheremo». Non è
antipolitica: è la vera politica, per troppo tempo scomparsa dai radar.
Fonte:Libreidee
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione