Di Fabrizio Casari
Nata da un’idea
di Bush padre e chiamata pomposamente “Vertice delle Americhe”, anche
la riunione di Cartagena tra i capi di Stato americani (dal Canada al
Cile) è stato l’ennesimo flop della politica statunitense a livello
continentale. Dopo il fallimento del vertice del 1994 a Miami, dove
Clinton venne sonoramente sconfitto dal blocco democratico
latinoamericano nel suo tentativo di far passare l’ALCA, (prolungamento
continentale del NAFTA tra Usa, Messico e Canada) i successivi - nel
2005 a Mar del Plata e nel 2009 a Trinidad - avevano fatto registrare
altrettante rovesci per il comando Usa sul continente.
Emanazione
diretta dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), i vertici sono
riusciti ad evidenziare come nel corso degli ultimi anni la crescente
aggregazione politica ed economica - con tratti riguardanti anche gli
aspetti finanziari e militari - tra i paesi del Cono Sud abbia
considerevolmente cambiato il quadro d'insieme della realtà coninentale
e, con ciò, messo fortemente in discussione lo schema sulla base del
quale l’OEA era nata e gli stessi Vertici erano stati pensati, cioé
vetrine per gli Usa che - magnanimamente - si prestavano al dialogo con i
loro sudditi.
Dalla creazione dell’ALBA (nata nel 2005) a quella più recente della
CELAC (Comunità di stati latinoamericani e caraibici, nata nel 2010),
passando per il rafforzamento della cooperazione regionale e lo sviluppo
del MERCOSUR, le ultime due decadi latinoamericane sono state
improntate alla crescita dell’autonomia politica e finanziaria dagli
stati Uniti. In ragione di questo, della miopia politica statunitense
che non riesce a leggere i profondi mutamenti politici del patio trasero,
i vertici richiesti dagli Usa hanno prodotto un effetto boomerang per
Washington, dal momento che hanno evidenziato al mondo intero la
creazione, solidificazione e crescita progressiva di un blocco
latinoamericano non più soggetto al Washington consensus.
Ormai
ogni vertice diventa così l’occasione per una dimostrazione concreta di
come l’egemonia statunitense sulla regione sia diventato un ricordo del
passato, abbarbicato alla disponibilità di ormai pochissimi paesi -
Messico, Panama, Cile e Colombia - a dipendere politicamente dal gigante
del Nord. E anche la storia di questo vertice, tra defezioni e scontri,
tra toni aspri e colloqui poco amichevoli, hanno confermato
l’impraticabilità da parte statunitense di tornare svolgere un ruolo di dominus politico nel continente.
Ma
veniamo all’incontro di Cartagena. Preceduto da un generale
scetticismo, il vertice aveva già dovuto annoverare le assenze di
Ecuador e Nicaragua, in solidarietà con Cuba che, per volontà di Stati
Uniti e Canada, continua ad essere esclusa dalle riunioni tra stati dove
Washington è presente tra gli organizzatori. Come già nelle riunioni
dell’OEA, la presenza del governo dell’Avana viene esclusa in ragione
del veto statunitense.
A dare la misura di come davvero la
questione democratica sia irrilevante nella sua sostanza, va detto che
l’anfitrione Santos, presidente colombiano con un curriculum in tema di
diritti umani da far drizzare i capelli, (ma impegnato a dare una
spolverata di democrazia dopo il genocida Uribe allo scopo di promuovere
la Colombia agli occhi degli investitori statunitensi) ha giustificato
l’assenza di Cuba con il meccanismo procedurale che prevede le decisioni
all’unanimità sulla convocazione dei vertici.
Inutili
si sono rivelate le rimostranze degli altri paesi latinoamericani, che
giudicano l’assenza di Cuba come un pegno dovuto all’anacronistica e
ossessiva politica Usa contro L’Avana: tanto Obama come Harper, il
canadese che altro non è se non l’appendice dello statunitense, non
hanno voluto sentire ragioni. “Cuba non ha ancora fatto passi avanti sul
terreno della democrazia”, ha spiegato Obama al riguardo, mentre non
provava nessun imbarazzo a sedersi affettuoso con il presidente
honduregno, messo al suo posto da elezioni truccate in seguito al colpo
di Stato che depose il legittimo Presidente Zelaya.
D’altra parte
va ricordato che, storicamente, l’interpretazione tutta statunitense
della democrazia prevede che i colpi di stato militari siano legittimi
(e spesso sostenibili) mentre le rivoluzioni popolari siano deprecabili
sempre e comunque. Un conto è mettere i paesi in mano ai primi, un altro
è vederli in mano agli ultimi. Cuba, dunque, è stata uno dei tre paesi
assenti dal vertice, al quale per diverse ragioni (anche di salute) non
hanno partecipato altri presidenti, tra cui Chavez.
Sul piano
strettamente politico della rappresentanza, assenti Cuba, Ecuador e
Nicaragua, c’era quindi la sola Bolivia a rappresentare l’ALBA, il
blocco di sinistra dei paesi latinoamericani. Ma è stato anche l’ultimo
dei vertici così concepiti, dal momento che la stessa Bolivia, così come
Argentina e Brasile, hanno già dichiarato che non si parteciperanno ad
ulteriori, future riunioni, ove Cuba non fosse invitata.
Liberalizzazione
delle droghe leggere, apertura alla presenza di Cuba nel consesso e
prese di posizione chiara a favore di Buenos Aires nella disputa sulle
Malvinas, sono stati i punti significativi su cui si è misurata la
distanza incolmabile - e consumato lo scontro - tra Usa e Canada da un
lato e la maggior parte del blocco latinoamericano dall’altro.
Sul
permettere o no a Cuba di far parte del consesso si è già detto, mentre
sulla questione spinosissima della sovranità di Buenos Aires sulle
Isole Malvinas, Obama, riproducendo le scelte di Washington all’epoca
del conflitto armato tra Londra e Buenos Aires, ha scelto di sposare la
politica britannica, che rivendica il possesso delle isole argentine
alla corona. Le polemiche e le minacce inglesi di questi ultimi due mesi
hanno però visto l’intera America latina schierarsi al fianco della
presidente Cristina Fernandez nella rivendicazione della sovranità
territoriale argentina sulle isole. Dunque anche qui nessun accordo,
nemmeno la possibilità di partorire una proposta comune di mediazione,
resa impossibile del resto dalle completamente divaricate posizioni di
partenza.
Ed anche in relazione alla delicatissima questione
della lotta al narcotraffico, di fronte alla richiesta latinoamericana
di riconsiderare strategie e obiettivi, non c’è stata nessuna
possibilità di dialogo. Obama ha confermato l’assoluta indisponibilità
statunitense a rivedere le sue politiche ultra-proibizioniste,
nonostante la prova del loro fallimento, visto che non solo non hanno
impedito la produzione di oppiacei nel mondo, ma hanno anche fatto
raggiungere agli Usa il non felice record di maggior consumatore
planetario di sostanze stupefacenti. I paesi latinoamericani, dal canto
loro, oltre a ritenere che la produzione di coca e di cannabis sia
l’unica produzione possibile per i contadini latinoamericani, distrutti
dall’abbattimento operato dal WTO del valore dei prodotti alimentari sul
mercato mondiale, le sostanze possano essere utilizzati a scopi
scientifici e terapeutici oltre che al consumo personale per il quale,
comunque, non vengono identificate come dannose o addirittura letali.
Ma
la politica ultraproibizionista statunitense risulta indifferente alle
verifiche sulla propria efficacia. Il fatto è che la produzione,
distribuzione e consumo clandestino (perché illegale) rende possibile la
nascita e lo sviluppo imperioso dei cartelli dei narcos, con le note
implicazioni sul piano della sicurezza e sulla circolazione di denaro
illecito, che obbligano a dover fronteggiare un fenomeno che ormai può
definirsi letale per la istituzioni e la vita democratica in diversi
paesi. In molti paesi - Messico in primo luogo - si sono create infatti
organizzazioni talmente potenti dal configurare veri e propri stati
paralleli.
E non c’è dubbio che si sono creati, grazie all’immensa disponibilità
di denaro ottenuto con i proventi del traffico di narcotici, divenendo
così organizzazioni interne ai singoli paesi (ed internazionali) che
mettono in discussione dalle fondamenta lo stesso ordine democratico.
Sarebbe quindi necessario che le politiche di contrasto si muovessero
nella direzione di depotenziare ruolo e affari dei narcos. E solo la
legalizzazione delle sostanze meno nocive ed il loro commercio regolato
dagli stati potrebbe, di colpo, azzerare i proventi delle organizzazioni
criminali, che prive di risorse straordinarie vedrebbero venir meno la
ragione della loro stessa esistenza.
Ma il presidente
statunitense non ha ritenuto nemmeno possibile l’apertura di un dialogo
sul tema. Ufficialmente perché la posizione politica statunitense di
guerra aperta a tutto ciò che non condividono non consente margini di
trattativa e ripensamenti, ma in realtà a nessuno sfugge quanto con i
cartelli dei narcos sempre più protagonisti della vita politica e
sociale, la sovranità messicana sia in forte dubbio. Anche per questo il
problema viene lasciato a marcire: un paese vicino, produttore di
petrolio e di braccia a basso costo, se impedito nella sua sovranità,
offre al vicino potente maggiori e migliori strumenti per il suo
controllo politico.
Senza contare poi che il traffico di armi dagli Usa verso il Messico e
quello degli stupefacenti dal Messico verso gli Usa, consente a
Washington di agire - in nome della sicurezza delle sue frontiere - come
commissario straordinario con pieni poteri nei confronti del Messico,
con un livello d'ingerenza insopportabile per qualunque relazione tra
stati. Un modo tutto sommato efficace e redditizio di dirigere dal di
fuori un altro paese, peraltro strategicamente ed economicamente
importante. Viene quindi facilmente identificato dai latinoamericani il
tentativo statunitense di utilizzare la guerra ai narcos per
incrementare ulteriormente il suo dispositivo militare nella regione e
la conseguente influenza politica di natura squisitamente coloniale ai
danni dei paesi latinoamericani.
Dunque nessun consenso, nessun
documento comune, nessuna dichiarazione di chiusura unitaria da
Cartagena. Se la volontà di Obama era quella di presentarsi alla
comunità latinoamericana come leader di una ritrovata sintonia tra Nord e
Sud - elemento da utilizzare nel voto degli elettori latinos nella
prossima campagna elettorale - il vertice ha dimostrato l’esatto
contrario. Il Presidente Usa, che proprio ai latinoamericani si era
presentato in una delle sue prime uscite dopo l’insediamento alla Casa
Bianca, era stato all’epoca accolto con la speranza che potesse aiutare a
costruire una inversione di rotta nel rapporto tra Nord e Sud del
continente. Ma quattro anni dopo, preso atto del suo continuo abbandono
nei fatti di quanto promesso a parole, di averlo visto procedere solo a
rinforzare la presenza militare nel continente (ultima la base nel sud
del Cile) senza offrire nessun dialogo politico, oltre che una buona
parte degli elettori Usa anche i governi a sud del Rio Bravo hanno
deciso di sfiduciarlo.
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