Di Rosa Ana De Santis
Sabato 24 marzo ricorreva il 32° anniversario del martirio di Monsignor Oscar Omero. A celebrarlo nella chiesa del Santo Rosario è stato il vescovo ausiliare di San Salvador, Gregorio Rosa Chavez, e messe in ricordo sono state celebrate in numerose altre chiese sparse per il mondo, tutte quelle in cui Romero è già santo nonostante la mancanza di una canonizzazione ufficiale. Ancora oggi El Salvador è un paese ferito dalle conseguenze disastrose della lunga guerra civile e dalle cruente repressioni contro cui Romero si scagliò senza esitare un momento.
Messo alla periferia del potere ed esiliato dalla stessa Chiesa di Roma, la celebrazione della sua memoria rappresenta con urgenza il bisogno che il cattolicesimo ha, per rinnovarsi, di porre al centro l’opera missionaria e la vocazione di una nuova evangelizzazione. A 50 anni dal Concilio Vaticano II il ritardo su questo aspetto - o meglio lo scollamento tra le gerarchie di Roma e le chiese - è rimasto purtroppo inalterato e la scomodità di figure come quella di un vescovo conservatore divenuto difensore del popolo è ancora palpabile nei corridoi di Piazza San Pietro.
A dimostrarlo la strada tortuosa, avvelenata di ostacoli e resistenze, che finora ha impedito a Romero di essere anche solo beato. Il record di Wojtyla vanta 456 santi e 1288 beati, ma non annovera il martire di El Salvador immolato sull’altare con il corpo eucaristico tra le mani. Gli fu preferito il vescovo di tutta altra linea: Lacalle, fondatore dell’Opus dei. Difficile trovare nella storia della Chiesa, a parte i primi martiri, icona più simbolica e più vicina al sacrificio di Cristo di quella dell’assassinio di Monsignor Romero. Un martirio che la Chiesa di Roma pare non aver colto.
Il processo di canonizzazione di Romero inizia nel ’96 e le posizioni del vescovado salvadoregno e della Curia romana rimangono distanti. Le riserve sembrano stare tutte non tanto sulle opere di dottrina del Monsignore del popolo, quanto su alcune omelie troppo impegnate sulla denuncia della repressione sanguinaria dei militari a danno dei civili e non solo dei guerriglieri dell'FMLN. Il sospetto di sotterranei sabotaggi è confermato da questa lentezza di esame e dall’inserimento in extremis del nome di Romero tra i testimoni della fede ricordati nell’anno giubilare. Un incidente diplomatico evitato per un soffio.
Monsignor Arnulfo Romero era un Vescovo conservatore, ma la brutale repressione dell’esercito salvadoregno addestrato, finanziato e diretto dagli Usa e la ferocia degli squadroni della morte, guidati dal Maggiore Roberto D’Abuisson (mandante dell’assassinio di Romero) lo spinsero sempre più verso un’opera di mediazione prima e di presa di posizione netta poi contro gli eccidi e la repressione forsennata dei campesinos perpetrati in nome della “lotta al comunismo”. E non fu l’unico religioso a cadere sotto i colpi degli squadroni della morte: sei suore statunitensi, insieme al Rettore dell’Università , il gesuita Ignacio Ellacurria, furono brutalmente assassinati perché sospettati di “collaborazione con la guerriglia”.
E’ proprio sull’altare della Basilica di San Salvador che Romero viene ucciso da un cecchino agli ordini di D’Abuisson. Viene colpito durante l’omelia, mentre aveva appena finito di dire: “In nome di Dio, vi chiedo, vi scongiuro: cessi la repressione”. Poi il proiettile del sicario spense la sua voce. Accasciato al bordo dell’altare, divenuto il Golgota di El Salvador, morì compiendo fino all’ultimo respiro la sua missione di uomo di fede e di pace.
E’ forse la catena di responsabilità per la morte del Monsignore che fino ad ora ha frenato il Vaticano: dall’allora Presidente Napoleon Duarte (democristiano) fino ai fratelli D’Abuisson (squadroni della morte e successivamente partito ARENA, fino alla CIA e al Dipartimento di Stato USA della Presidenza Reagan) la lista di coloro che tramarono per assassinare Romero si compone di “amici e sostenitori fedeli” della linea politica di Woytila in quegli anni. Singolare, però, che i maggiori protagonisti del complotto per uccidere Romero siano morti tutti giovani, in preda a malattie devastanti.
Chi teme che Romero abbia trascinato la Chiesa nella politica delle fazioni e l’abbia collocata a sinistra esacerbando i conflitti politici del paese trascura alcuni argomenti. Omette ad esempio che stare accanto al popolo dei disperati è stato scritto prima nel Vangelo che nel Manifesto di Marx. Che Romero non ha imbracciato armi come altre figure della teologia della liberazione. Che dovremmo chiamare allora“comunisti” tutti quei preti che nel secondo conflitto mondiale accolsero nelle chiese i perseguitati del nazifascismo: ebrei, oppositori politici, semplici civili.
Se le scelte politiche sono fondamento ineludibile per valutare l’operato sacerdotale, diventa difficile allora non chiamare nazisti quanti in seno al Vaticano aiutarono sanguinari kapò a nascondersi in America Latina, come pure a quanta complice alleanza ha consentito ai regimi del Sudamerica degli anni settanta di perseguitare popolazioni intere con la benedizione della Chiesa locale e nella cecità di quella di Roma.
Sembra che la causa di beatificazione sia alle sue battute finali, ma in coerenza con l’esempio di vita pastorale la canonizzazione di Romero è già tutta compiuta dal basso. Romero è santo e martire perché, come indicato dal suo testamento spirituale, egli sarebbe risorto. Ed è risorto. Non nelle basiliche del Vaticano, dove gli fu impedito da Papa Giovanni Paolo II di essere anche solo ascoltato, ma nel popolo di El Salvador, che la memoria del suo pastore continua a tenerla viva nelle carni e nel cuore.
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