Intervista a Gerry Condon di Gianni Sartori
Dal Vietnam alla Libia, l'impegno di un ex-soldato americano sempre più convinto che non esista alcuna guerra giusta.
Dalla diserzione ai tempi della guerra in Vietnam alla militanza nell’organizzazione “Veterans for peace”.
Dalla diserzione ai tempi della guerra in Vietnam alla militanza nell’organizzazione “Veterans for peace”.
Gerry, disertore all'epoca della guerra in Vietnam, fuggito in Canada e poi in Svezia dopo una condanna a dieci anni, dalla fine degli anni sessanta non ha mai lasciato che il suo impegno per la Pace e contro le guerre si spegnesse. E oggi si trova al fianco delle ultime generazioni di disertori, quelli che hanno conosciuto l'orrore delle guerre imperialiste in Iraq e Afghanistan. Dimenticavo. La sua famiglia è di origine irlandese.
Puoi parlarci della vostra attività con Veterans for Peace?
Io ed Helen lavoriamo con “Veterani per la Pace”, un’associazione collegata con altre realtà pacifiste. È formata da veterani di guerra (anche della seconda guerra mondiale e qualcuno della guerra di Spagna). La maggior parte, sia reduci che disertori, risale al Vietnam. Esistono poi altre organizzazioni per i reduci più giovani come Iraq Veterans Agaist the War (IVAW) con cui collaboriamo. Nei pressi delle basi, sia negli Usa che in Germania, abbiamo aperto bar e pub. Entriamo in contatto con i soldati per spiegargli cosa sia realmente la guerra. Abbiamo riscontrato che molti soldati hanno problemi psicologici o psichiatrici (per es. tra le donne-soldato, sottoposte ad abusi sessuali), ma la risposta dell’esercito è scarsa e quindi per aiutarli dobbiamo cercare altre soluzioni. Se qualcuno decide di lasciare l’esercito noi ci attiviamo per aiutarlo.
Ora che gli Usa hanno lasciato l’Iraq potrebbe essere il momento per richiedere un’altra amnistia per i disertori in quanto la guerra era assolutamente illegale (oltre che imperialista). La vedo difficile con gli Usa sono in stato di guerra permanente, ma non impossibile.
Vedo che sei nato nel 1947, l’età giusta per andare in Vietnam. Come è cominciata la tua storia di attivista anti-guerra?
Nel 1965 cominciavo il college sapendo di essere “in lista”. All’epoca c’era la leva obbligatoria, ma non per tutti. Non accettando l’idea di dover uccidere qualcuno, scrissi una lettera al distretto militare spiegando le ragioni della mia contrarietà alla guerra. Mi venne recapitato un pacco di moduli da compilare in merito alle mie convinzioni religiose.
L’unica obiezione di coscienza riconosciuta era quella religiosa, ma non per ogni religione. In quanto cattolico (anche se personalmente mi consideravo agnostico) non avevo possibilità dato che, a giudizio dei legislatori, la religione cattolica implica il riconoscimento della “guerra giusta”. La legge valeva per quelle religioni che erano contro tutte le forme di guerra, sempre e comunque. In pratica, la qualifica di obiettori veniva riconosciuta soltanto agli esponenti di alcune chiese protestanti come i quaccheri. Negli Stati Uniti fu un sacerdote, Peter Rigas, il primo ad elaborare su base teologica l’obiezione di coscienza in nome dei principi del cattolicesimo. In seguito, nei primi anni settanta, la Corte Suprema cominciò, con molta riluttanza, a prendere in considerazione “forti convincimenti contro la guerra” anche di natura non religiosa.
In conclusione finisti comunque arruolato nei Berretti Verdi. Un’esperienza non proprio edificante, dicevi...
Alla fine, non compilai i moduli dato che comunque le mie motivazioni non erano di natura religiosa e mi ritrovai nell’esercito. L’addestramento base durava tre mesi. Dovevamo correre imbracciando il fucile e contemporaneamente gridare “uccidi i gook”, un termine razzista per definire gli asiatici. Nel nostro reparto c’era una recluta di origine asiatica e quando qualcuno chiedeva chi fossero i gook, il sergente lo indicava. Alla fine anche lui ha disertato e in seguito siamo diventati amici. Successivamente cominciai un addestramento di tipo medico-sanitario. Dovevamo essere in grado di intervenire (fare una diagnosi, amputare un arto...) in situazioni dove i medici non erano disponibili, per esempio sul campo di battaglia. Questo addestramento specifico è durato un anno e quindi ho avuto più tempo per pensare.
Talvolta mi presentavo in divisa
Oltre a più tempo per pensare, avrai avuto anche la possibilità di incontrare i reduci rimasti feriti sui campi di battaglia dell’Indocina. Cosa raccontavano?
Parlando con i reduci ho potuto conoscere una parte delle nefandezze commesse dal nostro esercito. Nefandezze praticamente quotidiane, va detto. La tristemente famosa strage di civili operata a My Lai è stato soltanto un episodio tra tanti altri. Molti soldati erano tormentati dai rimorsi, sia per quello che avevano fatto che per quello a cui avevano assistito (magari senza intervenire). Altri invece si vantavano. Tutti comunque raccontavano gli stessi avvenimenti. Allora ho veramente capito che non potevo partecipare a questa ignominia.
E a questo punto, con la definitiva presa di coscienza, sono cominciati i guai. O sbaglio?
Ho cominciato a parlare in pubblico contro la guerra (era il 1968, talvolta mi presentavo in divisa) e presto la mia foto finì sui giornali.
Come ritorsione venni immediatamente destinato al Vietnam e quando mi rifiutai finii davanti alla Corte marziale. Venni condannato a dieci anni (una sentenza che doveva servire da esempio), ma in contumacia perché nel frattempo ero scappato a Montreal, in Canada.
Da qui in Europa, prima in Italia (intervenni ad un dibattito a Milano) e poi in Germania. Sapendo che l’FBI era sulle mie tracce nel novembre 1969 andai in Svezia, all’epoca l’unico paese europeo che concedesse asilo politico ai disertori statunitensi. In Canada i disertori erano migliaia (ricordo che qui è nata Greenpeace fondata da un gruppo di disertori – nda), mentre in Svezia eravamo circa 800.
Possiamo dire che sei diventato un attivista a tempo pieno soltanto dopo aver lasciato gli Usa?
In Svezia, a contatto con i vari movimenti pacifisti europei, ho imparato cosa significa essere un attivista. Dopo aver partecipato alla Conferenza di Stoccolma contro la guerra del Vietnam, nel 1971 andai a Parigi dove tra l’altro conobbi Jane Fonda (ormai impegnata non solo contro la guerra, ma a favore del governo nord-vietnamita) e molti altri esponenti del movimento antimilitarista. Alla fine del 1972 tornai in Canada per promuovere una campagna per il completo ritiro delle truppe e un’altra (insieme ad Amnesty International) a sostegno di chi si opponeva alla guerra rifiutandosi di partire. Avevamo sempre considerato la guerra illegale e quindi il rifiuto diventava legittimo.
In quel momento gran parte della popolazione statunitense era contro la guerra, soprattutto tra i sostenitori del Partito Democratico. In campagna elettorale Jimmy Carter promise l’amnistia per chi era ancora in carcere o latitante. Nel 1977, il suo primo atto politico come presidente fu appunto l’amnistia per i disertori e un percorso di reinserimento sociale.
Ma nel frattempo tu eri già ritornato negli Usa, prima dell’amnistia. Non temevi di essere arrestato?
Ero rientrato nel 1975 e presi parte ad una cinquantina di incontri e dibattiti in altrettante città. Ovviamente rischiavo l’arresto, ma ad un certo punto, forse per evitare un caso internazionale, l’esercito ritirò la sentenza. Diciamo che ho avuto fortuna.
A questo punto, avendo “già dato”, avresti potuto ritirarti a vita privata. Invece sei diventato un attivista anti-guerra a tempo pieno. Cosa puoi dirci della situazione attuale, dopo una serie infinita di conflitti (Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan...) in cui la presenza statunitense è (o è stata) preponderante?
Intanto ricordo che molti dei disertori di allora sono ancora attivi. Anche in Canada dove alcuni sono diventati noti esponenti di partiti di sinistra. Molti negli anni ottanta sono andati in Nicaragua per ricostruire scuole e ospedali distrutti dai contras denunciando le collusioni tra il governo statunitense e questi gruppi armati che erano stati addestrati dalla Cia.
Negli ultimi anni mi sono ritrovato a lavorare con una nuova generazione di disertori. Al momento circa 300 si sono rifugiati in Canada. La maggior parte sono veterani dall’Iraq o dall’Afghanistan. Sono già stati in guerra almeno una volta e avendo sperimentato di persona la situazione non sono rientrati. Sfortunatamente la situazione odierna del Canada è cambiata e ottenere l’asilo politico sta diventando piuttosto difficile. Stessa situazione in Svezia. Al momento c’è un veterano disertore che ha chiesto asilo politico in Germania, André Shepard. Per ora non gli è stato concesso, ma ha fatto appello per non essere espulso. È comunque importante che i paesi dove si sono rifugiati, anche non concedendo l’asilo politico, permettano ai disertori di restare. Purtroppo molti stati europei sono nella Nato e coinvolti sia in Iraq che in Afghanistan.
Gerry Condon (a destra)
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A questo proposito, quali impressioni hai raccolto durante il suo tour in Europa?
In questo tour di quattro mesi, nato con l’idea di mettere in rete un maggior numero di movimenti pacifisti, ho raccolto molte lamentele, soprattutto in Italia, Germania, Belgio e Irlanda, per la perdita di sovranità nazionale. In Irlanda per esempio si contesta che l’aeroporto di Shannon venga utilizzato come scalo dagli aerei militari statunitensi. Ho inoltre percepito il diffuso timore che l’Unione europea si trasformi in un’altra entità imperialista, aggressiva e completamente in mano alle banche.
Da un punto di vista più generale, ho visto movimenti significativi un po’ dovunque, “indignati” in molte piazze europee. A Francoforte e Barcellona (dove riportavano in casa gli sfrattati), ma anche a Dublino, Coork e Belfast. In Irlanda recentemente gli occupanti si sono incontrati con i sindacati dei lavoratori e nella costa ovest tutti i porti sono rimasti chiusi per qualche giorno, un’azione che ha spostato immediatamente sulla costa degli Usa il dibattito sul divario tra chi ha troppo e chi non ha niente.
Mi sono poi reso conto di quanto sia diffusa la consapevolezza della connessione tra il nucleare civile e quello militare dato che le scorie del primo sono indispensabili per le bombe atomiche. Soprattutto in Germania ho visto una profonda sinergia tra anti-nuke e anti-guerra.
Come negli Stati Uniti, nelle manifestazioni contro il nucleare ci sono sempre cartelli contro la guerra e viceversa. Anche se non c’è un nesso diretto, tutti i movimenti degli ultimi anni (dai No global di Seattle e Genova fino a chi occupa Wall Street) fanno parte di una coscienza e solidarietà globali, di un movimento che si ribella all’esigua minoranza di privilegiati che pretende di decidere per il rimanente 99%. Finora la gente manifestava e protestava per poi tornarsene a casa. Oggi (dalle “primavere arabe” agli indignados spagnoli) c’è questa tendenza a occupare i luoghi in modo permanente. Mi sembra un movimento caratterizzato in senso anticapitalista e da cui i partiti sono praticamente assenti. È un processo che definirei sia democratico che anarchico, un movimento fondamentalmente di autorganizzazione.
E l’opinione pubblica statunitense cosa ne pena della “vecchia Europa”? In particolare cosa si dice dell’Italia, questa “grande portaerei americana nel Mediterraneo”?
In realtà la maggior parte degli statunitensi non pensa nulla in proposito, anche per il controllo esercitato sui media dai gruppi di potere. Non capisce la politica estera degli Usa e non conosce l’Europa, tanto meno l’Italia.
Nonostante le guerre siano orribili, molti miei connazionali pensano che comunque le intenzioni di Washington siano buone. Basti pensare che alcune persone già impegnate nei movimenti pacifisti si sono espresse a favore dei bombardamenti in Libia. “Noi andiamo per ragioni umanitarie, bombardiamo per salvare vite umane” ci dicevano. Se non fosse tragico sarebbe ridicolo, ma troppa gente ci crede.
Un ringraziamento particolare a Gino Vallesella per il prezioso contributo in veste di interprete.
Da A-Rivista Anarchica
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