Di Andrea Papi
Il problema vero non è
l’equità della riscossione dei tributi, come ci vogliono gabellare, ma
sono i tributi stessi, il loro significato e il senso che li sottende.
In ogni dove echeggia lo slogan “anche i ricchi devono pagare”, con l’intento ministeriale di darsi una parvenza di voglia di giustizia e di volontà di essere equi. Ma lo slogan stesso smaschera l’endemica ipocrisia del potere, perché contiene la confessione esplicita che fino ad ora i ricchi sono stati evasori, confessando al contempo che solo i non ricchi hanno sempre pagato le tasse. Il perché lo si lascia dire e scrivere ai giornalisti ed ai commentatori, facendo intendere che d’ora poi questa ingiustizia avrà fine. Sta di fatto che con l’ultima stangata i non ricchi hanno ormai ben poco da dare (praticamente il fondo del barile è stato raschiato quasi a puntino), mentre il fabbisogno statale è ancora enorme. Così lor signori si trovano costretti, pena vera e propria bancarotta e conseguente fine della cuccagna, a rivolgersi ai loro prediletti, per svuotare un po’ (senza esagerare) anche le tasche di costoro.
La favola di una nuova efficienza
Assistiamo a cose che in altri tempi, in Italia perlomeno, sarebbero state vissute dai più come poco edificanti. Bliz superpubblicizzati di controlli sbirreschi in noti luoghi frequentati da vip, come Cortina e Portofino. Espliciti inviti ai comuni cittadini a denunciare eventuali evasori, ad essere delatori a fin di bene, il decantato “bene comune” ovviamente. Personaggi sconosciuti che pubblicizzano su internet di aver costretto negozianti a dare lo scontrino a decine di persone, divenuti per questo eroi nazionali invitati nei vari network. Si cerca di rendere tutti complici in una vastissima operazione di polizia tributaria, il cui scopo è il trionfo della ragion di stato, nella maggioranza dei casi contro le ragioni dei cittadini. Stiamo vivendo lo stato che dilapida i cittadini tentando di farlo col concorso dei cittadini stessi. Fa pensare a una forma aggiornata e “imposta” della cinquecentesca “servitù volontaria”.
Non stupisce tanto che i ricchi non abbiano mai pagato quanto che in questa fase il potere trovi necessario ufficializzare che fino ad ora hanno pagato quasi solo i meno abbienti, ammettendo con candore ipocrita che si è fatto addirittura in modo che ciò avvenisse come fatto ordinario. Certo che i ricchi devono pagare. Ci mancherebbe! Ma perché si è dovuti arrivare al quasi completo fallimento dell’economia nazionale, dopo aver spremuto fino all’inverosimile le tasche di chi già non vive troppo bene? Allora questo slogan, con cui il government attuale tenta di farsi bello, non è altro che un alibi. Si vuol creare un clima di accettazione per l’imposizione di un nuovo autoritarismo, mascherato dalla favola di una nuova efficienza che metterebbe da parte l’effettiva inefficienza del precedente governo berlusconiano. È un’ulteriore recrudescenza autoritaria di una democrazia che è già di per sé ampiamente autoritaria fin dalle fondamenta.
Ma è ben altro il nocciolo vero del problema che ci permette di affrontarne la sostanza. Il problema vero non è affatto l’equità della riscossione dei tributi, come ci vogliono gabellare, ma sono i tributi stessi, il loro significato e il senso che li sottende. In definitiva, prima di stabilire come e con quale equità si debbano pagare le tasse, bisogna capire perché dobbiamo pagarle e se sia giusto ed etico riconoscersi in questo propagandato dovere di cittadini.
Per capire partiamo dai fondamentali. Che significato hanno le tasse? L’articolo 53 della Costituzione recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», secondo criteri di progressività, cioè chi ha di più deve pagare di più. Il principio costituzionale che stabilisce l’obbligo della tassazione per ogni cittadino è perciò legato alla, ovvia, contribuzione che ogni componente della società deve alle spese per l’andamento generale che riguarda tutti. Il principio che definisce la partecipazione individuale a quest’obbligo, cui legalmente nessuno potrebbe sottrarsi, è in ragione della ricchezza individuale accertata.
Stefano Rodotà (la Repubblica, 12 gennaio 2012) identifica questo articolo costituzionale come patto tra cittadini e stato. In linea di principio giuridico dominante potrebbe anche starci, ma in linea di principio di giustizia comincia ad essere molto dubbio, tanto è vero che giuridicamente si parla di obbligo di legge, mentre il principio enuncia una partecipazione individuale. Il significato della parola “patto”, secondo il vocabolario, corrisponde a accordo fra due o più parti. Qualsiasi accordo che si rispetti è dunque accettato e concordato liberamente da tutte le parti che stringono il patto. È difficile identificare una tale modalità in una questione come le tasse, che vengono imposte sistematicamente senza nei fatti stipulare alcun accordo con nessuno. In altre parole, lo stato decide secondo i suoi bisogni e tutti dobbiamo sottometterci, esattamente come facevano i vari signorotti feudatari e le aristocrazie che la rivoluzione francese si era illusa di aver cancellato per sempre. Nulla di più ingiusto! Concretamente le tasse non sono altro che gabelle che vengono estorte dal “principe”, l’attuale “principato democratico” (espressione coniata da Danilo Zolo), per soddisfare i propri bisogni.
L’ipocrisia è diventata regola
Nonostante si sostenga che sia superata, la filosofia giuridica imperante giustifica e afferma la consistenza di un tale patto con le classiche ragioni della filosofia del contratto sociale, che di fatto continua ad essere alla base delle asserzioni giustificative dei poteri dominanti. Nel momento in cui lo stato di natura fu sostituito dalla vita in comune associata, sostiene il contrattualismo, per superare la condizione d’instabilità e d’insicurezza per la mancanza di regole, alla base del formarsi delle società fu stabilito un patto tra chi governa e chi è governato, in cui chi governa viene autorizzato da chi è governato ad esercitare il potere. Nel Leviatano di Hobbes addirittura il contratto dà legittimità al potere monarchico assoluto. In questo alveare giustificativo la democrazia rappresentativa trova legittimità nelle sue scelte perché la rappresentanza politica parlamentare è eletta, quindi considerata rappresentativa del popolo sovrano.
Ma sono secoli che, alla mensa dei potenti di turno, gli oligarchi e i loro sostenitori si dicono tutto da soli, senza mai creare di fatto un luogo veramente d’incontro e di confronto per sviscerare il problema. Provino a chiedere al famoso “popolo sovrano”, senza fraintendimenti e senza raggiri accademici e specialistici, se effettivamente sia consapevole di aver stipulato un simile patto e di riconoscersi in esso. Vediamo cosa succede. La stessa teorizzazione contrattualista, se presa in tutta la sua formulazione, offre gli spunti di fondo per rendere inesistente il conclamato accordo. La visione del contratto sociale si basa infatti sulla supposizione che, accettando spontaneamente le leggi che vengono loro imposte, le persone sanno di perdere una parte della propria libertà per assicurarsi maggiori tranquillità e sicurezza sociale. Sostiene pure che nel momento in cui il patto viene violato il potere politico diventa illegittimo, legittimando di conseguenza il diritto di resistenza e di ribellione.
Nei fatti nessuno accetta spontaneamente l’imposizione delle leggi, bensì tutti le subiamo. Praticamente lo stabilisce la stessa legislazione, nel momento in cui si fonda su un sistema di obblighi e divieti la cui trasgressione è punita. Sempre nei fatti il presunto patto, in realtà mai stipulato, viene incessantemente violato, sia dagli abusi di potere e dalla corruzione sia dalle persistenti ingerenze della malavita organizzata, la quale può esser tranquillamente considerata l’espressione illegale del sistema di potere vigente. Perché allora non è legittimato anche il diritto di resistenza e di ribellione, come suggerisce la teorizzazione contrattualista, che invece in moltissimi casi sono considerate reati? La risposta è che in realtà il potere è autoreferenziale e viola sistematicamente gli stessi presupposti che stabilisce per autogiustificarsi. I controllori vengono scelti dai controllati e gli esecutori sono gli unici autorizzati a giudicare il proprio operato. In questo modo il famoso popolo sovrano, che secondo costituzione dovrebbe essere l’unico vero sovrano con la titolarità delle decisioni, è nei fatti sistematicamente escluso da ogni scelta e da ogni intervento critico e di controllo. Siamo immersi in pieno nel classico “oltre al danno la beffa”. Mai proverbio fu più azzeccato.
Ma l’elemento meno compatibile con ciò che viene dichiarato sta nelle scelte di spesa, che secondo teoria dovrebbero produrre soprattutto servizi ed essere fatte in nome e nell’interesse di tutti. Almeno durante il feudalesimo il feudatario senza tanti raggiri chiedeva i tributi per soddisfare i propri sfizi e la cosa era chiara e trasparente. Con l’avvento della democrazia rappresentativa, storica risultante politica della liberaldemocrazia, invece c’è un formalismo dichiarato che si autoproclama in difesa dei diritti di tutti secondo principi di equità, trasparenza e solidarietà, mentre nei fatti applica un ricorrente inganno e una metodica imposizione iperautoritaria. Nella a/democrazia dell’attuale “principato democratico” l’ipocrisia, sistematica e strutturale, è diventata regola.
Disobbedienza civile
Secondo i principi liberaldemocratici ognuno avrebbe il diritto di partecipare alle scelte di spesa collettiva che lo riguardano direttamente, di esser considerato e interpellato. Il tanto decantato “bene comune” è tale se è condiviso e definito sulla base di un libero confronto. Oggi invece lo stato, attraverso gli organismi addetti forniti di un potere illimitato, decide sua sponte qualsiasi tipo di impiego del denaro pubblico: spese militari, inchieste e servizi secretati, investimenti di ogni tipo, partecipazioni a speculazioni finanziarie, ecc., cui vanno aggiunti gli affari sottobanco che alimentano la corruzione e di cui beneficiano personalmente i pubblici funzionari. Tutto ciò è possibile perché i cittadini sono esclusi da ogni decisione in proposito e dai controlli sui vari movimenti di denaro pubblico.
Così siamo sottoposti alla condizione, per nulla eclatante, che ci viene imposto di contribuire a spese che dovrebbero riguardare il benessere collettivo, avendo di fatto l’obbligo di contribuire a un pozzo senza fondo, che non abbiamo voluto e che non possiamo controllare, per trovarci pieni di debiti e di tasse, sia dirette che indirette, fra l’altro continuamente in aumento. Tutto ciò non è nient’altro che tirannico ed è solo insopportabile. Dati questi presupposti di fatto, è conseguente affermare che lo stato non può avere alcun diritto morale di estorcere tasse ai suoi cittadini. È un diritto che ha perso sul campo proprio per come conduce da sempre le cose come stanno.
Di fronte a tutto ciò ogni vero amante della libertà (e gli anarchici sono notoriamente “amanti fanatici”), se è conseguente e coerente con se stesso, non può che auspicare una rivolta etica dal basso, tale che i cittadini comincino a rifiutarsi di pagare le tasse, come fece Thoreau dando avvio alla disobbedienza civile nel 1846, smettendo di evaderle, che è altra cosa perché l’evasione è solo un atto furbesco egoistico che non ne contesta il senso. Dovremmo riappropriarci della res/publica, ora in mano alle varie caste politicanti e finanziarie, cominciando a decidere autonomamente come e dove spendere i soldi messi in comune per le esigenze di tutti. In una società giusta l’equo concorso personale si dovrebbe dare, volontariamente e spontaneamente, quando le spese pubbliche che riguardano l’insieme della comunità fossero la risultante di scelte concrete veramente prese con metodi di decisione condivisi, sottratti all’arbitrio di prezzolati pescecani. La qual cosa è evidente che non può riguardare in alcun modo l’oggi che stiamo vivendo.
Da A-Rivista Anarchica
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