Di Gabriele Battaglia
Si è insediato il comitato di villaggio di Wukan,
eletto a suffragio universale e accolto come una pietra miliare per
l’evoluzione democratica – e una democrazia dal basso – della Cina.
Il villaggio di pescatori del Guangdong era stato protagonista di una lotta collettiva
contro le requisizioni di terre lungo tutto il 2011. A dicembre
l’epilogo: dopo la morte dell’attivista Xue Jinbo – sospetta perché
avvenuta mentre era in custodia nella caserma della polizia del
villaggio – la cittadinanza scaccia i funzionari locali e comincia
un’esperienza di autogestione. La polizia circonda Wukan ma, dopo una
decina di giorni, il segretario provinciale del Partito Wang Yang fa togliere l’assedio,
annulla il progetto di speculazione immobiliare da cui discendevano le
requisizioni e promette elezioni libere per il 1° marzo.
È l’inaugurazione del “metodo Wukan”
e un’ulteriore spinta all’ascesa del “liberal” Wang, visto oggi come
probabile futuro membro del comitato permanente del Pcc – la stanza dei
bottoni che governa l’intera Cina – e contrapposto all’altro astro
nascente, a lui diametralmente opposto: Bo Xilai, il leader di
Chongqing.
A inizio marzo, Bo Xilai viene silurato mentre lo stesso premier (ancora) in carica, Wen Jiabao, fa appello a ulteriori aperture politiche per la Cina che verrà.
Sia
inteso. In Cina, a livello locale, esistono già forme di partecipazione
politica democratica. La vicenda di Wukan è però significativa perché
l’ampliamento dei diritti scaturisce da una lotta: da un conflitto che,
evidentemente, si è ben sposato con l’ambizione politica di un leader in
ascesa.
Che il metodo si stia diffondendo lo dimostrano altri fatti
di cronaca. Domenica scorsa, circa 400 abitanti del villaggio di
Wanfeng, nella zona di Shenzhen, hanno bloccato una strada per
protestare contro gli espropri di terre, effettuati da funzionari
recentemente arrestati perché scoperti collusi con la locale sezione di
una triade (cioè mafia) di Hong Kong, la Sun Yee On. Molti poliziotti
sono arrivati sul luogo della protesta, ma nessuno dei manifestanti è
stato arrestato. I funzionari hanno promesso di indagare la contabilità
finanziaria del villaggio e le proprietà immobiliari.
In un
passato non troppo lontano, queste storie finivano di solito
diversamente: nel nome dell’”armonia”, venivano arrestati i capipopolo
più esposti, da un lato, e i funzionari più indifendibili, dall’altro.
Il messaggio era chiaro: ci pensiamo noi, Stato, a punire duramente la
corruzione, parola passe-partout che comprendeva, nelle
intenzioni del potere, qualsiasi problema politico, sociale, economico
la gente sperimentasse sulla propria pelle; voi non osate ribellarvi,
perché in tal caso si tratta di attentato all’armonia sociale.
Peccato che la corruzione continuasse indisturbata, gettando sempre più discredito sul Partito e sullo Stato.
Wukan ha segnato una svolta e Wang Yang è ormai visto come il “riformista” dell’establishment cinese, con tanto di endorsement
– per interposto siluramento di Bo – che arriva da Pechino. La
trasparenza garantita dall’alto (“fidatevi!”) viene per la prima volta
sostituita da quella che nasce dal basso.
Tutto meraviglioso?
Non esattamente: il comitato di Wukan, appena insediato, ha scoperto che
tutti i documenti sulla situazione finanziaria, sulla popolazione e
sulle proprietà immobiliari del Paese sono spariti. I funzionari deposti
avrebbero detto che le carte furono distrutte il 20 settembre scorso,
quando una folla inferocita prese d’assalto la sede del comitato. I
nuovi leader del villaggio non ci credono.
È segno che esistono ancora molte zone oscure. Anche a Wukan.
Da E-il Mensile
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