Di Giorgia Grifoni
L’otto marzo per molte donne è un giorno speciale: si festeggiano i diritti conquistati nel lento corso dei decenni, si ricevono mimose, auguri e cioccolatini. Per altre, invece, questo è ancora un giorno di lotta. Perché in alcune parti del mondo essere donna vuol dire non avere il permesso di guidare, né di poter lasciare il paese senza l’assenso di un uomo, o addirittura non potersi scoprire il capo. Ma vuol dire anche vedersi negato il diritto di lottare per la terra, per la libertà e per la democrazia. Le donne, che nella Primavera araba hanno avuto – e continuano ad avere- un ruolo di primo piano, a più di un anno dall’inizio delle rivoluzioni continuano a essere poco tutelate e scarsamente rappresentate. E’ al loro coraggio che Amnestyquest’anno dedica la Giornata internazionale delle Donne. Un coraggio messo a dura prova dall’evolversi della Primavera araba.
LE MANIFESTANTI. La realtà quotidiana delle proteste è che sulle donne si accanisce la violenza delle forze di polizia. Dal Bahrain all’Egitto, dalla Siria allo Yemen, senza dimenticare la misogina Arabia Saudita, in molti dei casi partecipare alla rivoluzione in gonna significa subire torture e violenze sessuali in carcere. Tutti ricorderanno il video della manifestante denudata e picchiata selvaggiamente dai militari in piazza Tahrir lo scorso dicembre. In Siria, invece, tristemente famosa per le sue prigioni dell’orrore, le donne arrestate testimoniano di aver subito giorni di isolamento e di torture: il tutto, nel più completo silenzio della moglie del presidente, Asma al-Assad, un tempo forte sostenitrice dei diritti delle donne nel suo paese. Amnesty ha lanciato un messaggio alla first ladysiriana perché condanni le violenze subite dalle attiviste.
Non va meglio in Arabia Saudita, dove le donne che hanno sfidato il divieto di guidare lo scorso anno con la campagna “Women2drive” sono state arrestate, in alcuni casi processate e condannate a 10 frustate. Ma continuano a provare: Amnesty ha lanciato proprio oggi una nuova campagna -“Le donne saudite devono guidare verso la libertà”- e sta facendo pressione sull’ambasciatore saudita a Londra, il principe Mohammad Bin Nawaf, perché chieda a Riyadh di concedere alle donne il diritto di guidare la propria auto. Ed è di ieri la notizia di una manifestazione pacifica di un migliaio di studentesse della King Khaled University nella provincia sud-occidentale dell’Asir repressa dalla polizia a bastonate ed estintori: il bilancio è stato di 50 ferite.
LE RAPPRESENTATE. Nei paesi dove la Primavera araba sembra in via di riuscita, per le donne si prospetta comunque un futuro di scarsa rappresentanza nelle nuove istituzioni e, in alcuni casi, di invisibilità. Laddove le desiderate elezioni libere hanno riportato una vittoria dell’islam politico – da sempre restio a dividere la governance con le donne – e quelle in programma sembrano andare nella stessa direzione, il gentil sesso ha assistito alla scomparsa della quota di rappresentanza femminile dalle istituzioni. Come in Libia, dove la quota rosa del 10% proposta per l’elezione della futura assemblea costituente è misteriosamente sparita. Il motivo? La maggioranza della popolazione chiamata a esprimersi via internet era contraria. Stessa storia in Egitto, dove i militari hanno eliminato la quota rosa che sotto Mubarak destinava 64 seggi in Parlamento alle donne.
Nelle elezioni marocchine – dove ha trionfato il partito isalmista di Giustizia e Sviluppo – che hanno seguito la riforma costituzionale voluta da re Mohammad V per far tacere la piazza, invece, un solo ministero su 30 è andato a una donna. Nonostante il numero delle deputate elette sia aumentato e nonostante il Marocco, sulla carta, sia uno degli stati più progressisti in materia di pari opportunità. In Tunisia, le intenzioni erano davvero nobili. Prima di fare il pieno alle elezioni dello scorso ottobre, il leader del partito islamista trionfatore ‘Ennahdha’, Rashid Ghannouchi, aveva assicurato la metà dei seggi in parlamento alle donne, “velate o meno”. Ma la realtà delle elezioni – decine di liste, circoscrizioni piccole con il sistema proporzionale – ha fatto sì che solo i capilista di tutti i collegi abbiano trovato posto in Parlamento. E sono quasi tutti uomini. Si è comunque arrivati a un risultato soddisfacente: 26,3% dei seggi sono per le donne. Eppure, più che emancipazione sembra trattarsi di regressione: l’unico evento ufficiale riportato in Tunisia per la giornata internazionale delle donne è una conferenza su come “il Califfato sia l’unico sistema in grado di assicurare i diritti delle donne nel mondo musulmano”. E in Yemen, per le elezioni-farsa di due settimane fa si è presentato un solo candidato: un uomo. Lontani dalla Primavera araba, ma figli di una stessa tendenza, i risultati delle ultime elezioni irachene confermano la regola: una sola donna-ministro in un Parlamento di 325 deputati che dovrebbe riservare il 25% dei seggi al sesso femminile. Ibtihal al-Zaidi, che detiene il portafoglio delle pari opportunità nel gabinetto di Nouri al-Maliki, ha affermato che “le donne avevano più diritti sotto la dittatura di Saddam Hussein”.
LE DETENUTE. Altrettanto cupa la situazione femminile nella martoriata Palestina, dove si viene incarcerati dalle autorità israeliane per qualsiasi forma di protesta. Qui, le donne che vivono l’occupazione non solo si vedono strappare via figli, fratelli e mariti, ma vegetano in prigione senza processo per un periodo indeterminato: a Tel Aviv la chiamano detenzione amministrativa. La festa della donna, in Palestina, è dedicata a loro. E soprattutto a Hana Shalabi, liberata nello scambio di prigionieri dello scorso ottobre per il soldato israeliano Gilad Shalit. Arrestata nuovamente circa tre settimane fa e condannata a una detenzione amministrativa di altri sei mesi, Hana è in sciopero della fame dal 21 febbraio scorso.
L’associazione palestinese per i diritti dei prigionieri ‘Addameer’ ha chiesto, nella giornata internazionale delle donne, la liberazione delle sette detenute nelle carceri israeliane e ha condannato nuovamente “il trattamento crudele e discriminatorio che subiscono in prigione, come le molestie sessuali, le punizioni fisiche e psicologiche, l’umiliazione e la mancanza di assistenza sanitaria femminile”. La ‘Coalizione delle donne per la pace’ e la ‘Società palestinese della donna che lavora per lo sviluppo’ hanno invece organizzato una manifestazione al checkpoint di Qalandia oggi alle 12.30, come “parte della lotta quotidiana delle donne palestinesi contro l’occupazione e l’oppressione israeliana in tutti i suoi significati politici e sociali”. E non bisogna dimenticare neanche la lotta delle donne iraniane, che continuano a chiedere riforme nel campo dei diritti umani e delle libertà personali. Questo otto marzo Amnesty lo dedica anche a Nasrin Sotoudeh, avvocatessa per i diritti umani che sta scontando 6 anni nella prigione di Evin semplicemente per aver svolto il suo lavoro. Le autorità iraniane considerano illegale il ‘Centro per i difensori dei diritti umani’ per il quale Nasrin lavora, e il suo reato sarebbe quello di “propaganda”. Le è proibito praticare la sua professione per i prossimi 10 anni.
Senza elencare uno a uno i diritti negati alle donne del mondo arabo e musulmano, basta ricordare che, in quello che sembra il più progressista dei paesi arabi, il Libano, al gentil sesso non è concesso di passare la nazionalità ai propri figli. E non esiste ancora una legge che le tuteli le donne dalla violenza domestica, di cui è vittima una su tre. In Yemen le bambine vengono date in spose anche prima dei dieci anni. E se il Kuwait ha concesso alle donne il diritto di voto solo nel 2009, in Arabia Saudita ancora non è stato loro riconosciuto. Forse se ne parlerà alle elezioni municipali del 2015.
Da Nena News
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