Di Michele Paris
L’annuncio ufficiale della morte del dittatore nordcoreano, Kim
Jong-il, ha scatenato nei media occidentali una serie infinita di
commenti nei quali si sottolinea fino alla noia la possibilità di azioni
provocatorie da parte di un impenetrabile regime impegnato in un
delicatissimo processo di transizione. Di fronte al rischio di un
conflitto nella penisola coreana, Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone
avrebbero perciò già innalzato il livello di guardia per contrastare
eventuali mosse di Pyongyang; anche se, a ben vedere, le maggiori
minacce alla stabilità della regione sembrano venire proprio da
Washington e dai suoi alleati in Estremo Oriente.
Per quanto quello presieduto fino a qualche giorno fa dal 69enne Kim
Jong-il sia innegabilmente un regime stalinista dittatoriale al servizio
di una ristretta cerchia di potere, a contribuire in buona parte alla
segretezza e alla presunta provocatorietà del governo nordcoreano in
questi decenni - così come alle continue tensioni in questa porzione di
Asia orientale - è stato precisamente l’atteggiamento aggressivo degli
Stati Uniti. Proprio per questo, appare più che probabile che nel
prossimo futuro siano gli USA a cercare di sfruttare la situazione
precaria in Corea del Nord in seguito al decesso del “Caro Leader” allo
scopo di destabilizzare il regime.
Ripercorrendo brevemente la storia della penisola coreana negli
ultimi due decenni, appare evidente come, a partire almeno dagli ultimi
anni di vita del fondatore della Repubblica Democratica Popolare di
Corea, Kim Il-sung, le varie amministrazioni che si sono succedute a
Washington abbiano oscillato tra promesse mancate di dialogo e aperte
provocazioni. Una strategia volta a esercitare pressioni sul regime, col
fine ultimo di provocarne la caduta, quasi sempre sfruttando l’annosa
questione del programma nucleare nordcoreano.
Dopo il crollo nel 1991 dell’Unione Sovietica, primo sponsor della
Corea del Nord, Kim Il-sung inviò segnali di distensione all’Occidente,
acconsentendo alla firma del Trattato di Non Proliferazione in cambio di
aiuti economici e dell’uscita dall’isolamento diplomatico. Da allora i
negoziati con gli Stati Uniti hanno proceduto a singhiozzo, con questi
ultimi che quasi mai hanno intrapreso serie iniziative per alleviare il
senso di paranoia comprensibilmente diffuso ai vertici del regime di
Pyongyang.
Nel
1994, poi, sulla questione del nucleare si giunse sull’orlo di un nuovo
conflitto, evitato probabilmente per i timori delle conseguenze
devastanti che ne sarebbero derivate. Dalla guerra sfiorata si arrivò
invece ad una sorta di accordo, suggellato nello stesso anno dalla
visita nella capitale nordcoreana dell’ex presidente Jimmy Carter,
inviato da Bill Clinton per incontrare Kim Il-sung.
Con la morte di quest’ultimo poco dopo, toccò al figlio Kim Jong-il
finalizzare l’accordo con gli USA. Il nuovo leader s’impegnava a
smantellare le installazioni nucleari a fini militari nel paese in
cambio di aiuti per sviluppare il settore civile e ristabilire relazioni
diplomatiche con l’Occidente. Ancora una volta, però, da Washington non
ci fu il rispetto degli accordi presi con i nordcoreani.
Le speranze di una distensione tra le due Coree ebbero un nuovo
impulso quando nel 1998 a Seoul venne eletto alla presidenza Kim
Dae-jung. Il nuovo presidente sudcoreano, lanciando la cosiddetta
“Sunshine policy”, rappresentava in realtà quegli ambienti del suo paese
interessati all’apertura dell’arretrato vicino settentrionale, visto
come fonte di manodopera a basso costo. Il disgelo nella penisola
coreana portò allo storico incontro tra i due Kim a Pyongyang nel giugno
del 2000 e alla successiva visita del Segretario di Stato americano,
Madeleine Albright, sul finire del secondo mandato dell’amministrazione
Clinton.
Le speranze di pace subirono tuttavia una brusca frenata con l’arrivo
alla Casa Bianca di George W. Bush, il quale congelò sul nascere i
rapporti con la Corea del Nord. Nel 2002, poi, la nuova amministrazione
repubblicana incluse il regime di Kim Jong-il nell’asse del male -
assieme a Iran e Iraq - e lo accusò di avere avviato un programma
segreto di arricchimento dell’uranio. Per tutta risposta, la Corea del
Nord uscì dal Trattato di Non Proliferazione, espulse gli ispettori
dell’ONU e rimise in moto le proprie installazioni nucleari.
Tramite la mediazione della Cina, principale partner nordcoreano dopo
la fine dell’URSS, successivamente gli Stati Uniti accettarono comunque
l’avvio di nuovi colloqui con Pyongyang, con il coinvolgimento anche di
Russia, Corea del Sud e Giappone. Con le guerre in corso in Afghanistan
e Iraq, infatti, l’amministrazione Bush non era disposta a fronteggiare
un ulteriore conflitto in Asia orientale. I “colloqui a sei”, in ogni
caso, non impedirono alla Corea del Nord di testare il primo ordigno
nucleare nel 2006, seguito poi da un secondo nel 2009, poco dopo
l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca.
Il presidente democratico, da parte sua, in questi tre anni ha in
sostanza proseguito la stessa tattica dei suoi predecessori, alternando
caute aperture ad aperte provocazioni nei confronti di Pyongyang. Un
atteggiamento che s’inserisce in una strategia più ampia promossa
dall’amministrazione Obama per contenere l’espansione in Asia orientale
della Cina, a sua volta interessata invece al mantenimento degli
equilibri esistenti nella penisola di Corea.
Sul
fronte interno nordcoreano, in ogni caso, alcuni commentatori sembrano
prevedere una possibile lotta di potere tra le varie fazioni del regime
dopo la morte di Kim Jong-il e in vista di un complicato passaggio di
consegne ad un inesperto successore, il figlio nemmeno 30enne Kim
Jong-eun. Altri, al contrario, sostengono che le élite della Corea del
Nord finiranno per allinearsi dietro l’erede della famiglia Kim, così da
garantire la loro sopravvivenza e quella del regime stesso.
Quel che è certo è che il 26enne o 27enne Kim Jong-eun si ritrova
improvvisamente alla guida di un complesso sistema di potere senza aver
ricevuto il necessario addestramento previsto dal padre malato. Kim
Jong-il aveva iniziato a introdurre il suo terzogenito ai vertici dello
stato nordcoreano nel 2008, dopo essersi ripreso da un ictus, come
raccontano i resoconti dei media.
Lo scorso anno, l’erede del dittatore venne poi fatto generale e
nominato alla vice-presidenza della Commissione Militare Centrale,
l’organo più potente del paese. Parallelamente, Kim Jong-eun iniziò
anche ad essere oggetto della propaganda ufficiale del regime.
Secondo alcune speculazioni, per il nuovo giovane leader nordcoreano
sarebbe prevista una sorta di reggenza, verosimilmente formata da alcune
delle figure più vicine a Kim Jong-il, come la sorella Kim Kyong-hui e
il marito Jang Song-taek, già considerato il numero due in Corea del
Nord, ma anche il fidato generale Ri Yong-ho. Quasi unanime è l’opinione
che il compito più arduo per Kim Jong-eun sarà consolidare il proprio
potere nei prossimi anni, all’interno di una cerchia costituita da
esperti (e spesso anziani) ufficiali militari e membri del Partito dei
Lavoratori.
Proprio alla luce di questo scenario, appare dunque improbabile che
un regime alle prese con un delicato processo di transizione decida di
avventurarsi in atti provocatori che scatenerebbero la dura reazione di
Stati Uniti o Corea del Sud.
Più
plausibile sembra piuttosto il contrario, cioè - sempre che le élite
nordcoreane abbiano effettivamente già accettato la successione del
giovane Kim - un qualche gesto di distensione verso i nemici di sempre
per guadagnare tempo e stabilizzare la situazione interna, proprio come
fece Kim Jong-il alla morte del padre nel 1994, quando ratificò il già
citato accordo per lo stop delle attività nucleari nel paese.
Questa eventualità non sembra però sfiorare gli Stati Uniti e i loro
alleati. Se pure Washington ha finora riposto con cautela alla morte di
Kim Jong-il, le decisioni della Casa Bianca sul possibile invio di aiuti
economici alla Corea del Nord e sulla ripresa dei negoziati sono state
congelate.
Allo stesso tempo, USA e Corea del Sud a partire da lunedì hanno
avviato una serie di consultazioni frenetiche, così come hanno fatto
anche USA e Giappone da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra.
Una intensa attività diplomatica e militare da parte dei tre alleati
che rappresenta forse la reale minaccia alla stabilità della regione,
nonostante, per stessa ammissione degli osservatori americani e
sudcoreani, non sia giunta per il momento nessuna iniziativa ostile né
alcuna dichiarazione bellicosa da parte di Pyongyang dopo la morte
improvvisa del “Caro Leader”.
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