Intervista all'intellettuale americano sul ruolo degli Stati Uniti in
Medio Oriente, sulla repressione dei regimi militari e sulla forza
destabilizzante della primavera araba.
Noam Chomsky, beniamino della sinistra, è famoso per le sue critiche ben
articolate della politica estera americana. L'intellettuale americano
si interessa specialmente al modo in cui gli Stati Uniti coccolano i
regimi autoritari che sono minacciati, in particolare quando ci sono di
mezzo interessi politici ed economici.
Chomsky è da lungo tempo professore nel dipartimento di linguistica e
filosofia all'Istituto di tecnologia del Massachusetts (MIT), dove è
famoso anche per aver sviluppato delle teorie che comprendono la
"fabbrica del consenso" e la diffusione della propaganda attraverso i
mezzi di informazione di massa.
Di recente si è offerto di condividere le sue opinioni personali
sull'Egitto del dopo-Mubarak con Egypt Indipendent (un settimanale che è
anche on line).
Quale è la sua opinione sullo svolgimento degli avvenimenti del
periodo di transizione militare? E da che parte pensa che stiano gli
Stati Uniti in questa situazione?
Dall'inizio ci sono state tutte le ragioni per aspettarsi che gli Stati
Uniti e i militari, che naturalmente si sono alleati in modo stretto,
avrebbero fatto quello che gli era possibile per limitare il
funzionamento della democrazia.
Per quale particolare ragione, secondo lei?
I militari, per ovvie ragioni: vogliono mantenere il massimo controllo
politico e proteggere i loro notevoli interessi economici. Il governo
degli Stati Uniti per una serie di motivi: il più limitato è che sono
ben consapevoli dell'opinione pubblica egiziana, come si è saputo dai
sondaggi gestiti dalle più prestigiose agenzie di sondaggi di opinione
statunitensi; l'ultima cosa che vogliono è che quelle opinioni si
riflettano nella politica, come avverrebbe in una democrazia che
funziona. Il motivo più ampio è che, in generale, la democrazia è
considerata una minaccia per gli interessi del potere, anche in patria.
All'estero è ben consolidato nella cultura tradizionale che gli Stati
Uniti hanno appoggiato la democrazia se e soltanto se è conforme a
interessi economici e strategici, e non c'è la minima prova questi
comprensibili, anche se deplorevoli, impegni siano cambiati.
Perché le continue dichiarazioni di Washington che condannano la
brutalità dei militari e sostengono il fiorire della democrazia?
Naturalmente c'è un impegno retorico per la democrazia e tutte le cose
buone, ma soltanto le persone più ingenue prendono sul serio queste
dichiarazioni, da parte di qualsiasi stato. E la pratica, compresa
quella molto recente, si accorda pienamente con le dottrine
tradizionali.
Che cosa intende con "dottrine tradizionali"?
Quando un dittatore che a loro piace molto è in pericolo, come avviene
di continuo, Washington segue una procedura abbastanza chiara:
appoggiarlo il più a lungo possibile, per esempio, se l'esercito gli si
rivolta contro, poi emettere dichiarazioni sul nostro anelito per la
democrazia, e poi lavorare sodo per mantenere al suo posto il precedente
sistema di dominio il più possibile. Gli esempi abbondano: Somoza,
Marcos, Duvalier, Chun, Ceausescu, Mobutu, Suharto e altri. Che la
stessa procedura sia stata seguita nel caso di Mubarak non dovrebbe
meravigliare nessuno.
Pensa che gli Stati Uniti sarebbero disponibili a venire a
compromessi su principi come i diritti umani per mantenere gli interessi
come Israele e gli accordi di Camp David?
Non si può venire realmente a compromessi sui principi come "i diritti
umani" prima di tutto perché in primo luogo essi non vengono seriamente
difesi - eccetto, naturalmente, quando si tratta di nemici o dove non ci
siano in gioco importanti interessi di potere. Le prove di questo fatto
sono schiaccianti, non soltanto per gli Stati Uniti, naturalmente, al
punto tale che è superfluo persino ricordare alcuni dei numerosi esempi.
I centri di potere degli Stati Uniti, statali e privati, hanno
interessi strategici ed economici di vecchia data in quella area
geografica che essi continuano a considerare fondamentali. Le politiche
governative riflettono questi interessi, come hanno fatto anche i
governi della Gran Bretagna e della Francia nei loro giorni di gloria
(e, tuttavia, come potenze minori). La stessa cosa si può dire anche di
altri.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, lei crede che in generale
condividano tutti lo stesso punto di vista, cioè: il Dipartimento di
stato, il Congresso, la Casa Bianca, la difesa, ecc.
I sistemi di potere non sono omogenei e quindi ci sono delle differenze
all'interno del governo e dei centri di potere centrati nel mondo degli
affari che hanno un ruolo enorme nel programmare la politica interna ed
estera. Lo spettro, però, non è molto ampio. Ci sono naturalmente quelli
che partono dal consenso, coloro che il consigliere di Kennedy e
Johnson per la Sicurezza nazionale McGeorge Bundy, chiamava "gli uomini
selvaggi dietro le quinte". Ci sono anche forze esterne, compresa
l'opinione pubblica quando vasti segmenti del pubblico sono organizzati e
attivi. All'interno dello spettro operativo, però, vengono tollerate
soltanto opinioni ristrette, come la casistica rivela chiaramente.
Sono emersi dei rapporti recenti che asseriscono che il senato degli
Stati Uniti si è presumibilmente attivato perché la cifra annuale di 1,3
miliardi di dollari che versa per finanziamenti militari nell'anno
finanziario 2012, sia subordinata al trasferimento di potere a un
governo civile - sulla base di violazioni dei diritti umani e di uso
scorretto di gas lacrimogeni, ecc. Che cosa ne pensa?
La parola "presumibilmente" è importante. Gli Stati Uniti hanno leggi
che proibiscono il trasferimento di armi a stati che ricorrono alla
tortura, a gravi violazioni dei diritti umani e ad altri crimini - per
esempio, la grave violazione di Israele riguardo alle Convenzioni di
Ginevra nei territori [palestinesi] Occupati. Vengono applicate in
qualsiasi misura importante quando interferiscono con interessi
strategici ed economici?
Per quanto riguarda l'opinione pubblica, quali sono le sue opinioni
sull'uso persistente di propaganda contro rivoluzionaria condotta
tramite i mezzi di informazione statali, particolarmente riguardo alla
distorsione di informazioni sugli scontri tra militari e dimostranti,
nell'Egitto post-25 gennaio?
Naturalmente i regimi autoritari tentano di restringere e controllare le
idee e l'espressione delle stesse. Ad alcuni, come i nazisti tedeschi,
sembra sia riuscito molto bene farlo, alla Russia bolscevica, un
po'meno, ma quello si svolgeva in un periodo molto più lungo senza
conflitti militari in corso che facevano da forza mobilitante.
Malgrado, però, un incremento di scetticismo da parte degli Egiziani
verso i mezzi di comunicazione statali all'inizio di questo anno, la
propaganda di stato continua a dimostrarsi particolarmente efficace
nello sviare e distorcere l'opinione pubblica nel tempo. Che cosa
provoca questo, secondo lei?
Presumo che sia un riflesso di preoccupazioni più importanti. La lotta
contro sistemi duri e brutali costa molto. La gente deve sopravvivere,
un argomento di particolare preoccupazione per coloro che, per prima
cosa, sono già al limite della sopravvivenza. Mentre la lotta continua, e
la gente non vede guadagni concreti nella loro vita quotidiana - ma
invece distruzione e insicurezza - è naturale che molti vorrebbero la
stabilità, il che vuole dire subordinazione al potere. Un effetto
collaterale potrebbe essere maggiore disponibilità ad accettare la
propaganda che dà la colpa delle privazioni alla lotta per la libertà e
la giustizia. E' un fenomeno comune in queste lotte, in tutta la storia.
Recentemente c'è stato quello che alcuni hanno descritto come "guerra
dei mezzi di informazione" tra il giornalismo indipendente e i mezzi di
informazione di massa statali. Lei pensa che questa sia davvero una
lotta bilaterale con un aumento di piattaforme di mezzi di informazione
orizzontali/sociali che costituiscono una minaccia, o è un fenomeno
troppo marginale perché abbia un reale impatto sulle gerarchie
dell'informazione ormai costituite?
In quanto al possibile impatto, non ne so abbastanza per poter esprimere
un giudizio con certezza. Qualsiasi sia il giudizio, è chiaro che cosa
si dovrebbe fare: estendere la contestazione, e arruolare gruppi più
grandi perché vi partecipino. Senza dubbio è una battaglia impari, ma i
sistemi di potere non è detto che debbano assolutamente vincere. Aver
deposto Mubarak è soltanto un esempio di questo. Non è necessariamente
una battaglia persa in partenza. Che cosa si deve fare dipende dai
giudizi di coloro che sono direttamente impegnati nella lotta.
A proposito delle dittature che in passato sono state minacciate
minacciate e che hanno forti legami con gli Stati Uniti, come lei ha
detto, rispetto alle "dottrine tradizionali", ha qualche parere sul modo
in cui stanno andando le cose questa volta, e/o sulle speranze di poter
essere ottimisti?
La speranza più grande di essere ottimisti è offerta dalle persone
coraggiose che hanno affrontato tanti rischi a Piazza Tahrir per
rovesciare un regime brutale, motivando altre persone in tutto il mondo e
dalle molte persone come loro oggi e in tutta la storia che hanno
rifiutato di accovacciarsi in silenzio davanti all'oppressione e
all'ingiustizia. Ecco perché il mondo è diventato un posto un po' più
decente, non senza regredire, spesso con un ritmo angosciosamente lento,
ma con molte vittorie importanti.
Fonte:Znet
Da Globalist Syndication.it
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