Di Michele Paris
Un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times ha
rivelato come da qualche anno gli agenti dell’antidroga statunitense
sotto copertura stiano partecipando attivamente alle operazioni di
riciclaggio di decine di milioni di dollari provenienti dai traffici dei
cartelli messicani. Gli agenti infiltrati della DEA (Drug Enforcement
Administration) conducono cioè operazioni speciali in Messico, nelle
quali gestiscono in prima persona il trasporto di enormi somme di denaro
destinate ad essere ripulite nelle banche americane. L’indagine,
firmata dalla reporter Ginger Thompson, si basa sulle dichiarazioni
rilasciate in forma anonima da alcuni ex agenti, ed altri tuttora
impiegati sul campo, dell’agenzia federale antidroga creata nel 1973 dal
presidente Nixon.
Secondo il giornale newyorchese, questi agenti sotto copertura
prendono in consegna in territorio messicano due o tre carichi di denaro
a settimana. A volte, sono gli agenti messicani infiltrati a ricevere
il denaro dai narcos. Quelli americani, poi, lo trasportano negli Stati
Uniti su velivoli governativi, per poi depositarlo su conti corrente
aperti dai cartelli o dagli stessi agenti. Da qui, i proventi del
narcotraffico vengono successivamente trasferiti a società che
forniscono beni e servizi ai cartelli. In altre occasioni, invece, gli
agenti della DEA si fingono riciclatori ed entrano in contatto diretto
con i rappresentanti dei cartelli, dai quali ricevono il denaro che
viene allo stesso modo depositato nelle banche americane e in seguito
trasferito nuovamente in Messico.
Alla domanda di quanto denaro sia stato finora trasportato in questo
modo dal Messico agli Stati Uniti, un agente intervistato dal Times ha
risposto soltanto “parecchio”. Solitamente, continua la fonte anonima,
la DEA cerca di sequestrare gli stessi importi riciclati, in parte
facendo pagare commissioni ai cartelli per i servizi forniti dai finti
riciclatori e in parte arrestando i narcotrafficanti al momento degli
scambi di denaro. In teoria, la DEA dovrebbe richiedere una speciale
autorizzazione al Dipartimento di Giustizia, da cui dipende, prima di
organizzare singole operazioni che prevedano importi da riciclare
superiori ai dieci milioni di dollari, ma in pratica ciò avviene molto
raramente.
Attualmente,
sono in corso circa 50 operazioni di questo genere in tutto il mondo,
autorizzate personalmente dal Ministro della Giustizia (Attorney
General), Eric Holder. In Messico, esse erano state bandite fino a pochi
anni fa, dopo le polemiche scoppiate a causa di un’operazione condotta
oltre confine dagli agenti americani della dogana nel 1998 senza aver
informato le autorità locali. Il ritorno a queste operazioni speciali è
avvenuto in concomitanza con il maggiore coinvolgimento degli Stati
Uniti nella guerra al narcotraffico nel vicino meridionale seguito
all’elezione del presidente Felipe Calderón nel dicembre 2006.
Secondo la versione ufficiale, le operazioni di riciclaggio della DEA
sarebbero indispensabili per comprendere le modalità con cui i cartelli
trasferiscono negli USA i proventi del narcotraffico per essere
riciclati, ma anche per individuare dove essi collocano il loro denaro e
per risalire ai vertici dei cartelli stessi. Senza queste rischiose
operazioni, inoltre, sarebbe molto difficile trovare le prove che
collegano il denaro riciclato ai cartelli, i quali hanno da tempo creato
reti finanziarie complesse che sarebbe impensabile poter penetrate con i
tradizionali strumenti di indagine.
Queste operazioni, tuttavia, sollevano quanto meno molte perplessità,
dal momento che, oltre a compromettere la sovranità messicana, di fatto
facilitano i traffici illegali delle già potenti organizzazioni
criminali. Oltretutto, i risultati ottenuti dai governi di Washington e
di Città del Messico appaiono trascurabili e sembrano non incidere
minimamente sulla situazione generale.
Come ha commentato un altro ex agente DEA al Times, se si
contribuisce “a riciclare denaro, è opportuno mostrare dei risultati.
Altrimenti, la DEA finisce per diventare il maggiore riciclatore nel
business della droga e il denaro va a finanziare violenze e assassini”. I
risultati, al contrario, sono tutt’altro che convincenti. Nel 2010 la
DEA ha confiscato circa un miliardo di dollari - 26 milioni il governo
messicano - vale a dire una frazione minima del flusso di denaro che si
muove tra Stati Uniti e Messico, stimato annualmente tra i 18 e i 39
miliardi di dollari. Questi stessi dubbi cominciano ad averli ora anche i
parlamentari americani, tanto che già lunedì alcuni membri repubblicani
del Congresso hanno manifestato l’intenzione di aprire un’indagine su
queste operazioni sotto copertura.
Le
polemiche sollevate dai repubblicani hanno in ogni caso una
connotazione politica e intendono colpire l’amministrazione democratica
del presidente Obama. Tanto più che il reportage del Times si aggiunge
ad un altro scandalo dai contorni simili e che riguarda il traffico di
armi. Una commissione della Camera dei Rappresentanti sta infatti
indagando sulla cosiddetta operazione “Fast and Furious”, condotta tra
il 2009 e il 2010 dagli agenti dell’ATF (Bureau of Alcohol, Tabacco,
Firearms and Explosives), i quali hanno facilitato l’acquisto e il
contrabbando di armi dagli USA al Messico nel tentativo di seguirne le
tracce e giungere ai piani alti dei cartelli del narcotraffico.
L’operazione è però decisamente sfuggita di mano ai federali, come
dimostra il recente ritrovamento di centinaia di queste stesse armi
sulle scene di crimini efferati commessi da entrambe le parti del
confine e in uno dei quali è rimasto ucciso un agente di frontiera
americano.
Rivelazioni come quella di domenica scorsa del New York Times,
assieme all’esplosione dello scandalo “Fast and Furious”, ripropongono
in maniera inquietante la questione dell’ambiguità del governo americano
nella lotta al narcotraffico.
Non solo l’attività dei cartelli della droga contribuisce a far
lievitare i profitti dei fabbricanti di armi in America - la cui
profonda influenza sulla politica di Washington è inutile ricordare - e
delle grandi istituzioni finanziarie, che notoriamente riciclano il
denaro dei narcos, anche al di fuori delle operazioni sotto copertura
delle agenzie federali. La minaccia perenne dei narcotrafficanti serve
anche e soprattutto a giustificare la militarizzazione di molti paesi
latinoamericani, così da garantire la continua presenza degli Stati
Uniti sull’intero continente. Una necessità, quest’ultima, diventata
ancora più pressante negli ultimi anni, alla luce delle minacce
all’egemonia americana provenienti da governi come quelli di Hugo Chavez
in Venezuela o di Evo Morales in Bolivia.
Una politica quella degli Stati Uniti che continua ad imporre un
prezzo carissimo alle popolazioni locali, come dimostrano gli effetti di
cinque anni di guerra al narcotraffico in Messico. L’impiego dei
militari deciso da Calderón per combattere lo strapotere dei cartelli ha
infatti portato ben pochi benefici ad un paese che dal 2006 ad oggi
conta qualcosa come 50 mila morti ed una serie infinita di abusi
commessi dalle proprie forze di sicurezza.
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