La Corea è una pedina delle grandi potenze e la riunificazione non conviene a nessuno

dic 22, 2011 0 comments
Se la Corea del Nord non vantasse alcune testate al plutonio (due secondo la CIA, addirittura quindici secondo altri) nascoste da qualche parte, il mondo avrebbe del tutto ignorato la scomparsa di Kim Chong’il nonché le connesse scene di isteria collettiva.
Per comprendere la Corea del Nord bisogna innanzitutto scansare alcuni pregiudizi. Nel Paese il calendario ufficiale conta i giorni a partire dalla nascita di Kim Ilsong, il Grande Leader, nel 1912. Morto nel corpo ma non nello spirito, in quanto tuttora formale assegnatario della presidenza, il leader perpetuo è padre dell’ideologia Chuch’e (letteralmente: “oggetto principale”, sovente tradotto come “autosufficienza”), dottrina populista e nazionalista alla base dell’identità collettiva dei nordcoreani non meno dei miti cosmogonici che da millenni permeano la cultura peninsulare. Contrariamente a quanto si creda, non si tratta di un’ideologia comunista. Durante la Guerra Fredda, Kim Ilsong si schierò con Stalin e Mao solo per ricevere aiuti economici e militari, non per ragioni ideologiche. A dirla tutta, da anni la parola comunismo non figura neanche più nella costituzione, espunta dall’appena scomparso Kim Chong’il, successore del Grande Leader.
Ed ecco il primo equivoco. Il vero credo dominante in Corea del Nord non è dunque il comunismo, bensì l’ultranazionalismo razzista in salsa confuciana. Una politica che dietro la retorica populista (“la Corea innanzitutto”), un vago programma socioeconomico e uno sfrenato culto della personalità, nasconde la subordinazione dell’intera vita nazionale al rafforzamento dell’esercito, investito della missione di “liberare” il Sud. È questa propaganda a giustificare l’esistenza stessa dello stato nordcoreano.
Oggi le ampie crepe insite nella propaganda stessa rappresentano la principale minaccia esistenziale di Pyong’yang, molto più delle armate americane dislocate nel Sud. Ormai la popolazione, stremata da condizioni di vita insostenibili, crede sempre meno alle grandi menzogne ufficiali. Lo Stato è troppo povero e ha una frontiera troppo ampia per tenere 20 milioni di abitanti sempre sotto controllo.
Per continuare a giustificare la propria esistenza, il regime deve adottare forme di propaganda sempre più persuasive. Gli occasionali incidenti di confine come l’affondamento della corvetta sudcoreana Ch’onan nel marzo 2010 (46 morti) e il cannoneggiamento dell’isola di Yonp’yong ne sono un esempio. Oppure ci sono le armi nucleari, valida merce di scambio da presentare al tavolo dei sei (USA, Cina, Russia, Giappone e le due Coree) per reclamare aiuti umanitari.
Secondo equivoco. Quello che la propaganda non è riuscita a fare è preparare il terreno all’ascesa di Kim Chong’un. Benché la stampa occidentale abbia giustificato le recenti scaramucce di confine nel senso di giustificare la successione ereditaria, il terzogenito del defunto Kim Chong’il non ha mai avuto molto spazio nei media di regime. La stessa operazione contro l’isola di Yonp’yong, secondo alcuni dettata dalla necessità per esaltare le doti militari del pacioso delfino, non è servita a favorirne la popolarità.
Questo introduce una domanda importante: chi comanda davvero a Pyong’yang? Benché la trasmissione del potere sia avvenuta finora per via ereditaria, la successione è sempre stata un problema per il regime nordcoreano. Al Grande leader Kim Ilsong sono serviti vent’anni per promuovere l’immagine del figlio Kim Chong’il in vista del cambio della guardia; quest’ultimo, invece, si è fatto accompagnare dal figlio nelle uscite ufficiali solo a partire da tre anni fa.
Attualmente i pretendenti al trono vacante non mancano: in primis Kim Kyonghui, sorella di Kim Chong’il, generale e membro del Plitburo e il marito di lei Chang Song Taek, numero due del regime e regista del potere dietro le quinte. Ma non mancano fratelli, fratellastri, dirigenti militari e di partito. L’ambiente politico non è dunque così cristallino (e cristallizzato) come la stampa occidentale (e quella di regime) vorrebbero mostrare.
Terzo equivoco. Considerato l’ultimo regime comunista del mondo, la retorica occidentale si è consumata nell’auspicare alla Corea del Nord un futuro cammino democratico, culminante nella riunificazione con il Sud. In realtà nessuno vuole che le due Coree tornino ad essere una.
La Corea, intesa come regione geografica, rappresenta l’esempio più concreto della politica delle sfere d’influenza ereditata dalla Guerra Fredda. L’armistizio seguente alla sanguinosa guerra del 1950-53 ha generato un equilibrio di pesi e contrappesi che nessuno ha interesse a modificare.
Gli Stati Uniti sono presenti in Corea del Sud con cinque basi militari e 30.000 uomini, poca cosa in confronto agli oltre 1.100.000 soldati di Pyong’yang, ma sufficienti per esercitare un’influenza in una zona che rappresenta il cortile di casa della Cina. Se Nord e Sud si riunissero, gli USA non avrebbero più alcun motivo di mantenere lì un contingente, a meno di un duro confronto diplomatico con Pechino.
Già, Pechino. Nei negoziati sul nucleare nordcoreano il governo cinese ha assunto un inedito ruolo di mediazione vantando un sicuro ascendente sulle decisioni di Pyong’yang. In realtà la Cina vuole togliere l’atomica ai nordcoreani per privarli dell’unica garanzia contro il proprio arbitrio. Ma se da un lato il Dragone ha interesse a ridimensionare un vicino scomodo e ribelle, dall’altro teme la riunificazione, perché se avvenisse sarebbe sotto l’egida del Sud, stretto alleato degli USA. Un intralcio all’espansione cinese nel Pacifico.
Stesso discorso per la Russia, sempre in preda ad una cronica sindrome da accerchiamento. Se ad Ovest i negoziati sullo scudo antimissile rimangono in perpetuo stallo, Mosca non si augura di certo la presenza di un Paese filoamericano sul fronte Est.
Neppure il Giappone vuole una Corea unita. Un Nord denuclearizato farebbe dormire a Tokio sogni più tranquilli, ma la tecnologia del Sud unita alla manodopera a basso costo del Nord darebbe luogo ad un concorrente commerciale imbattibile. Troppo, per un impero dall’economia claudicante.
La stessa Corea del Sud non sembra entusiasta all’idea della riunificazione, se si pensa agli incalcolabili costi che ne seguirebbero.
Quarto equivoco. L’erronea convinzione che Pyong’yang sia retta da un’ideologia comunista induce a sopravvalutare l’influenza della Cina su di essa. In realtà, come tutti gli stati ultranazionalistici, la Corea del Nord guarda con diffidenza il suo grande vicino. E dall’altro lato Pechino mostra sempre più insofferenza verso un regime molesto e imbarazzante., limitandosi ormai all’invio di aiuti e alle visite ufficiali.
Tuttavia, una eventuale svolta nello stallo coreano potrebbe venire solo dalla Cina. Nel 1950 Mao preferì schierarsi con Stalin contro gli americani, ricoprendo un ruolo decisivo nel respingimento delle armate del generale McArthur. Non è dato sapere cosa abbia spinto Mao ad entrare in guerra; forse il timore che gli americani potessero straripare in Cina dopo aver travolto il Nord; o forse l’influenza residua di Stalin all’interno del Partito Comunista cinese. Di certo il prezzo della guerra fu alto: la mancata riunione con Taiwan, indipendente dal 1949 e da allora protetta dall’ombrello militare statunitense. Se oggi la Cina lasciasse andare Pyong’yang, gli USA potrebbero interrompere la propria protezione (e l’annessa vendita di armi) a Taiwan.
Realisticamente, sarebbe uno scambio possibile? Difficile. Non soltanto perché occorrerebbe un preventivo riavvicinamento tra la Cina e Taiwan, ultimamente allontanate da reciproche accuse di cyberwarfare. Innanzitutto, in che modo gli USA renderebbero la cessione di Taiwan “vendibile” alla propria opinione pubblica? Inoltre, Taiwan rappresenta un trampolino sull’oceano, quanto di più indicato per favorire la strategia “Pacifica” della Cina, invalidando così il containment inaugurato da Obama. Senza contare tutte le circostanze menzionate più in alto.
In definitiva, lo status quo va bene a tutti. Il popolo coreano, più volte segnato da disavventure storiche che gli hanno riservato talvolta il ruolo di merce di scambio e talaltra quello di vittima predestinata, resta sacrificato sull’altare della politica internazionale. A prescindere da chi comanderà a Pyong’yang.

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