Di Sara Seganti
C’é qualcosa d’insolito. La Chevron, seconda compagnia petrolifera
del mondo, nota per i suoi metodi autoritari, offre pubbliche scuse e si
addossa tutta la responsabilità (e i costi) del recente sversamento di
greggio al largo della costa brasiliana. Il gigante petrolifero aveva
tentato per qualche giorno di minimizzare l’accaduto e di ridimensionare
le sue responsabilità, ma ha dovuto battere in ritirata di fronte
all’evidenza delle prove portate all’attenzione dell’opinione pubblica,
in questo caso da un blog come SkYTruth che ha pubblicato le immagini
satellitari del mare inquinato. E per tradizione, la Chevron non batte
mai in ritirata.
Il danno ecologico ha origine in un probabile errore commesso in una
piattaforma offshore nella concessione di Frade, a poco più di 300
chilometri dalla costa di Rio de Janeiro. Probabilmente, la Chevron ha
sbagliato i calcoli nella pressione delle trivellazioni che hanno aperto
una fuoriuscita di greggio dal fondale. Dall’8 novembre, giorno
dell’incidente, si calcola che la quantità di greggio riversato in mare
sia compresa tra i 5 e gli 8.000 barili, ma per adesso sembra che le
correnti stiano risparmiando le spiagge di Rio.
C’è qualcosa di strano anche nella decisione presa da un Brasile
candidato a diventare presto uno dei maggiori esportatori di petrolio
del mondo: la Chevron ha subito il divieto di operare sul suolo
brasiliano fino a che non siano state provate le sue capacità di fare
fronte a emergenze e falle nella sicurezza dei suoi impianti, adesso
all’esame dell’Agenzia nazionale del petrolio brasiliana. Come a dire,
non si esclude che la Chevron abbia dato prova di vera e propria
incompetenza. L’Agenzia ha espresso anche apprensione per i metodi
utilizzati per fermare la fuoriuscita, come i procedimenti a pressione
con l’utilizzo del cemento che potrebbero non essere sufficienti a
ripristinare la stabilità dei fondali.
Il
Brasile non sta concedendo sconti alla Chevron: l’azienda è già stata
condannata a pagare 20 milioni di euro, che avrebbero potuto essere di
più se non fosse questa la più alta ammenda prevista dalla legislazione
brasiliana per danni ambientali. La cifra sembra, in ogni caso,
destinata a salire per via degli elevati costi di bonifica e della
volontà politica del Presidente Dilma Roussef di trasformare questo caso
in un monito per le multinazionali che operano nel paese. La Chevron
rischia, infine, di essere esclusa dallo sfruttamento dei giacimenti
pertoliferi a 6.000 metri di profondità nell’oceano Atlantico per cui
aveva già stanziato miliardi di dollari di investimento e che
inizieranno a breve.
Cosa può aver portato la Chevron a porre le sue scuse? Già sotto i
riflettori di tutto il mondo, la Chevron ha un conto in sospeso in
America del Sud sopratutto per i processi che la oppongono all’Ecuador
per i gravi danni ambientali provocati negli scorsi decenni dalle
pratiche estrattive del petrolio. Se a questa pubblicità negativa, si
aggiunge l’attenzione dei media e la forte emotività dell’opinione
pubblica dopo il memorabile sversamento avvenuto l’anno scorso nel golfo
del Messico, negli Stati Uniti, perfino il management Chevron si è
probabilmente trovato costretto a rivedere le sue politiche difensive in
genere più reticenti nell’ammissione delle proprie responsabilità.
Dopo l’8 novembre, le sue quotazioni in borsa sono, infatti, scese
facendo perdere in poco tempo alla Chevron 10 miliardi di dollari in
valore di mercato, nonostante la gravità di questa perdita sia, sino ad
oggi, relativa se paragonata all’esplosione della Deepwater Horizon. In
Brasile si è riversato in mare soltanto lo 0,1% del greggio che
all’epoca inquinò il Golfo del Messico, pari a quasi 5 milioni di
barili. L’ipotesi è che i mercati abbiano “stra”- reagito di fronte
all’ipotesi di salate multe e all’aumento della frequenza di incidenti
ad alto impatto ambientale nelle piattaforme in alto mare.
La causa è da ricercare nel fatto che i paesi e le compagnie
petrolifere si spingono sempre più in profondità alla ricerca di nuovi
giacimenti da sfruttare. Queste trivellazioni sono, quindi, sempre più
difficili da mettere in sicurezza e le tecnologie usate nelle pratiche
estrattive offshore non sono sempre all’altezza degli obiettivi
complessi da raggiungere. Per di più, mai come oggi, attivisti e
organizzazioni a tutela dell’ambiente vigilano attentamente sui danni
provocati dall’estrazione dei combustibili fossili, tant’è che se non
fosse stato per l’eco mediatica scoppiata in seguito all’incidente la
Chevron avrebbe avuto terreno più fertile nel minimizzare l’accaduto.
La
situazione è particolarmente problematica per la Chevron, perché la
compagnia sta facendo dell’estrazione da piattaforme offshore uno dei
suoi nuovi business per cercare di invertire la rotta rispetto
all’andamento delle estrazioni sulla terra ferma che non garantiscono
più crescita e profitti illimitati. La Chevron ha già all’attivo decine
di progetti di trivellazione e costruzione di piattaforme offshore e
questo disastro rischia di minare la sua credibilità tecnica nel
compiere operazioni ad elevato rischio. E’ probabile che la
disponibilità offerta al Brasile di accollarsi tutte le spese di
bonifica sia un tentativo di dimostrare il suo senso di responsabilità
per non essere esclusa dalle concessioni per l’estrazione nell’Oceano
Altantico.
La scarsità di giacimenti facilmente accessibili e la riconversione
ancora lontana alle energie di origine non fossile, hanno creato una
vera e propria joint-venture tra grandi compagnie petrolifere che hanno
bisogno di materia prima e paesi che non hanno le tecnologie per
sfruttare gli ultimi giacimenti di greggio rimasti, che si trovano quasi
sempre in luoghi difficili da raggiungere come il fondale marino.
Se è vero che Dilma Roussef ha tutto l’interesse a chiarire qual’è il
tipo di (nuovo) atteggiamento che ci si aspetta da chi opera nel paese,
tutta la vicenda che oppone il Brasile alla Chevron ha il sapore di un
gioco delle parti, ad uso e consumo di un’opinione pubblica che entrambi
i contendenti hanno interesse a rassicurare, per consentire lunga vita a
questo tipo di operazioni ad alto rischio ambientale, con i lauti
profitti che ne conseguono.
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