Il danno ecologico ha origine in un probabile errore commesso in una piattaforma offshore nella concessione di Frade, a poco più di 300 chilometri dalla costa di Rio de Janeiro. Probabilmente, la Chevron ha sbagliato i calcoli nella pressione delle trivellazioni che hanno aperto una fuoriuscita di greggio dal fondale. Dall’8 novembre, giorno dell’incidente, si calcola che la quantità di greggio riversato in mare sia compresa tra i 5 e gli 8.000 barili, ma per adesso sembra che le correnti stiano risparmiando le spiagge di Rio.
C’è qualcosa di strano anche nella decisione presa da un Brasile candidato a diventare presto uno dei maggiori esportatori di petrolio del mondo: la Chevron ha subito il divieto di operare sul suolo brasiliano fino a che non siano state provate le sue capacità di fare fronte a emergenze e falle nella sicurezza dei suoi impianti, adesso all’esame dell’Agenzia nazionale del petrolio brasiliana. Come a dire, non si esclude che la Chevron abbia dato prova di vera e propria incompetenza. L’Agenzia ha espresso anche apprensione per i metodi utilizzati per fermare la fuoriuscita, come i procedimenti a pressione con l’utilizzo del cemento che potrebbero non essere sufficienti a ripristinare la stabilità dei fondali.
Cosa può aver portato la Chevron a porre le sue scuse? Già sotto i riflettori di tutto il mondo, la Chevron ha un conto in sospeso in America del Sud sopratutto per i processi che la oppongono all’Ecuador per i gravi danni ambientali provocati negli scorsi decenni dalle pratiche estrattive del petrolio. Se a questa pubblicità negativa, si aggiunge l’attenzione dei media e la forte emotività dell’opinione pubblica dopo il memorabile sversamento avvenuto l’anno scorso nel golfo del Messico, negli Stati Uniti, perfino il management Chevron si è probabilmente trovato costretto a rivedere le sue politiche difensive in genere più reticenti nell’ammissione delle proprie responsabilità.
Dopo l’8 novembre, le sue quotazioni in borsa sono, infatti, scese facendo perdere in poco tempo alla Chevron 10 miliardi di dollari in valore di mercato, nonostante la gravità di questa perdita sia, sino ad oggi, relativa se paragonata all’esplosione della Deepwater Horizon. In Brasile si è riversato in mare soltanto lo 0,1% del greggio che all’epoca inquinò il Golfo del Messico, pari a quasi 5 milioni di barili. L’ipotesi è che i mercati abbiano “stra”- reagito di fronte all’ipotesi di salate multe e all’aumento della frequenza di incidenti ad alto impatto ambientale nelle piattaforme in alto mare.
La causa è da ricercare nel fatto che i paesi e le compagnie petrolifere si spingono sempre più in profondità alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare. Queste trivellazioni sono, quindi, sempre più difficili da mettere in sicurezza e le tecnologie usate nelle pratiche estrattive offshore non sono sempre all’altezza degli obiettivi complessi da raggiungere. Per di più, mai come oggi, attivisti e organizzazioni a tutela dell’ambiente vigilano attentamente sui danni provocati dall’estrazione dei combustibili fossili, tant’è che se non fosse stato per l’eco mediatica scoppiata in seguito all’incidente la Chevron avrebbe avuto terreno più fertile nel minimizzare l’accaduto.
La scarsità di giacimenti facilmente accessibili e la riconversione ancora lontana alle energie di origine non fossile, hanno creato una vera e propria joint-venture tra grandi compagnie petrolifere che hanno bisogno di materia prima e paesi che non hanno le tecnologie per sfruttare gli ultimi giacimenti di greggio rimasti, che si trovano quasi sempre in luoghi difficili da raggiungere come il fondale marino.
Se è vero che Dilma Roussef ha tutto l’interesse a chiarire qual’è il tipo di (nuovo) atteggiamento che ci si aspetta da chi opera nel paese, tutta la vicenda che oppone il Brasile alla Chevron ha il sapore di un gioco delle parti, ad uso e consumo di un’opinione pubblica che entrambi i contendenti hanno interesse a rassicurare, per consentire lunga vita a questo tipo di operazioni ad alto rischio ambientale, con i lauti profitti che ne conseguono.
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