Artista, fisico nucleare laureato a Stony Brook, matematico (insegna alla University of Texas), Nikos Salingaros
è passato per molte vie prima di approdare all’urbanistica e alla
critica architettonica, alle quali ha dedicato articoli e saggi
importanti, molti dei quali tradotti nelle maggiori lingue moderne,
compresi il persiano e il cinese. In italiano: Antiarchitettura e
demolizione, e No alle archistar. La prestigiosa rivista Planetizen lo
ha classificato all’undicesimo posto fra i 100 più grandi teorici
dell’urbanistica di tutti i tempi,1 mentre UTNE Reader lo ha incluso fra
«i 50 visionari che stanno cambiando il mondo».2 Personaggio poliedrico
e fascinoso, ricco di humour e gentilezza, si occupa oggi soprattutto
delle nuove frontiere della progettazione partecipata (peer-to-peer
urbanism), e dello sviluppo degli algoritmi alla base dell’architettura
“biofilica”, cioè benefica nei confronti dei sistemi neurovegetativi
umani e animali. Su questi due argomenti sono in preparazione due libri
che usciranno all’inizio del 2012 anche in Italia.
— Prof. Salìngaros, la sua
polemica contro il fenomeno delle archistar ha il suo fondamento teorico
in una critica generale all’architettura moderna e contemporanea. Può
spiegarci cosa c’è che non va con tale architettura? E perché nel suo
bersaglio apparentemente lei include, ad es., International Style,
Modernismo, Postmoderno, e Decostruttivismo?
Prima di tutto, vorrei correggere un
malinteso: cioè, l’uso propagandistico dell’aggettivo «moderno» per uno
stile architettonico antiquato e insostenibile. Non è una colpa, ma si
tratta di un errore comune che molti accettano senza rendersene conto.
Il modernismo dell’International Style non è per niente moderno, è
invece testardamente retrogrado contro ogni sviluppo intelligente della
progettualità e della creatività umana.
L’architettura contemporanea di moda
rappresenta semplicemente una metamorfosi patologica dello stesso
modernismo, nel senso che è riuscita a cambiare le forme evitando ogni
influenza della possibile adattabilità alla geometria vitale. Lo stile
meccanicistico industriale del Modernismo si è così trasformato in
Postmodernismo, e poi in Decostruttivismo, senza mai abbandonare i
propri principi: la negazione della geometria complessa e coerente delle
forme naturali, e soprattutto proprio di quella geometria necessaria
agli esseri viventi. Non si può criticare l’assurdo dell’architettura
contemporanea di spicco senza accennare alle radici della sua
trasgressione.
— Lei ritiene, dunque, che debba esistere una sola architettura, nel senso di stile, di gusto?
Niente affatto. Ritengo che esista una
classe di architetture con organizzazione, adattate alla vita umana,
accomunate da una complessità tipica dell’algoritmo geometrico che dà
loro nascita. Si tratta di un’incredibile, meravigliosa varietà. Alcuni
rappresentanti del genere sono le architetture tradizionali
riscontrabili nelle grandi costruzioni che accompagnano l’intera storia
umana. Altri, sono le architetture più modeste realizzate direttamente
da chi le abita, nei villaggi e nelle favelas del mondo. Architetture
umane dotate di vita, che non sono riconosciute dall’establishment
architettonico come tali, perché demoliscono una grande impostura con la
loro stessa esistenza che spira grazia.
La varietà enorme delle progettazioni “a
mano”, del vernacolo e del tradizionale, incluse le espressioni
architettoniche formali ma radicate nella complessità adattiva,
testimoniano il frutto dell’intelligenza e della creatività umana contro
lo stile industriale inumano promosso dalla moda architettonica.
Quest’ultima è in realtà soltanto una debole e miserabile variazione del
vecchio modello industriale degli anni ’20 del secolo scorso.
Totalmente privo di vita, e dunque incapace di nutrire la nostra vita.
Per rispondere insomma alla sua domanda:
sì, esiste un’ampia classe di architetture umane diverse, anche molto
diverse superficialmente, accomunate però da alcune regole precise che
sottostanno alla progettazione. Il loro opposto consiste di quegli stili
industriali che si oppongono alla geometria frattale, per annichilire
ogni traccia di vita; e tra questi vi è tutto ciò che è stato promosso
dal secolo XX in avanti, fino alle architetture sterili oggi di moda. La
classe computativa di tale “antiarchitettura”, come l’ho definita nei
miei scritti, è tutt’affatto diversa da quella che definisce spazi
viventi e sostenibili.
— Quale dev’essere il criterio per decidere cosa va bene e cosa non va bene in un’architettura?
C’è un solo criterio: se l’utente
avverte un agio fisiologico/psicologico dentro e di fronte all’edificio,
abitandovi, lavorandovi. Non è un giudizio basato sulle foto, né
sull’ideologia, com’è invece oggi – vergognosamente – quello propagato
dagli architetti di professione. Abbiamo cioè a che fare oggi con un
fenomeno di sovversione di massa molto inquietante, dove ormai da oltre
un secolo gli architetti formati dall’accademia negano le loro stesse
reazioni di malessere rispetto agli edifici, per poi lodarli come
architettura «buona», soltanto perché corrispondono a un modello visivo
«approvato».
Con i miei collaboratori scienziati
abbiamo proposto una soglia di complessità nella computazione del
disegno architettonico. Per nutrire la neurofisiologia umana, il disegno
deve essere il risultato di una serie di calcoli con condizioni molto
precise, mai una forma o immagine caduta dall’alto. Un criterio che,
benché non garantisca che quell’architettura sarà adattiva, almeno la
contraddistingue da ciò che non potrà comunque mai esserlo di principio.
Basta uno sguardo per verificare che quasi tutti i progetti promossi
delle archistar non sono adeguati, nonostante alcuni clienti spendano
fortune per finanziarli.
La nostra società si è completamente
separata dalla realtà neurofisiologica. Eppure è tale realtà
psicocorporea a dirci, mediante il suo feedback sensoriale, se un
ambiente è “nutritivo” o “nocivo”. Il risultato è che molta gente non sa
più distinguere tra i due tipi di ambiente. Un secolo di architettura è
insomma riuscita a modificare l’essere umano, fino a farne un mostro
senza connessione con la propria natura: una pedina robotica, priva di
sensibilità rispetto al proprio ambiente. Ed ecco il comportamento
contraddittorio di alcuni cittadini «molto alla moda» che elogiano
edifici che li fanno star male. Per esempio, vanno a un museo di arte
contemporanea, o a un teatro di design, stanno là per un’ora, ne escono
psicologicamente malati, ma nonostante tutto, dichiarano che questi
edifici sono «geniali».
Il peggio accade quando i nostri
politici si fanno esecutori della ideologia nichilista veicolata da tali
architetture. È vergognoso che i sindaci di molte bellissime città
implorino le archistar di venire a distruggere i patrimoni dei loro
centri storici. E lo fanno con orgoglio… Il popolo si accorge della
spaventosa mostruosità di certi edifici, certi ponti, certe statue, ma
la sua protesta conta poco. Non c’è appello democratico alla fede nei
«capolavori architettonici» della presunta èlite. Anche quando queste
strutture fanno male alla gente, e addirittura a volte ne feriscono la
psiche o il corpo (penso alla sindrome da “edificio malato” o a certi
traumi ossei da ponte “artistico”), i politici rimangono sordi
all’indignazione popolare, per non contraddire quello che è un autentico
potere superiore.
— Il medesimo criterio può essere usato anche per altre discipline? Ad es. l’urbanistica, l’economia, la politica?
Certo che lo stesso criterio si applica
all’urbanistica, che non è altro che un’estensione del disegno
architettonico a una gamma di scale superiori: dalle scale
architettoniche della struttura fisica umana, si passa alle scale urbane
del movimento umano. Per una città, si deve avere il diritto
fondamentale all’agio di circolare liberalmente a piedi, con il
trasporto pubblico, e con l’auto. Si deve garantire la possibilità di
svolgere la propria vita quotidiana senza i grandi disagi procurati da
progetti urbani stupidi e formalistici.
Per quanto riguarda la politica, mi
limito a osservare che oggi abbiamo l’evidenza che il comportamento
delle persone in relazione all’architettura inumana offre molti
paralleli con il comportamento politico in una società controllata.
Invertendo le conclusioni prese dal mondo architettonico, l’icona della
politica diventa assai buia. Il sistema governativo è deviato da (e allo
stesso tempo, utilizza) una struttura di propaganda. La gente continua a
credere e a sostenere i propri manipolatori, un fenomeno che non ha a
che fare con la distinzione tradizionale tra destra e sinistra, poiché
si applica ovunque. Molti politici, dal livello nazionale a quello del
più piccolo paesino, si vendono al sistema di un enorme potere
globale/industriale.
— Che tipo di relazione si dà fra capitalismo e stile architettonico?
Non esiste nessuna relazione formale tra
un sistema politico o di governo e uno stile architettonico. Oggi
edifici giganteschi, progettati dagli stessi architetti di spicco, sono
costruiti nel sistema capitalistico europeo e USA, negli stati
teocratici arabi, nel sistema post-comunista cinese, e in ogni paese con
un governo totalitario dove il «Caro Capo» vuole apparire
«contemporaneo». Storicamente, diversi partiti politici hanno adottato
uno stile definitivo per la loro piattaforma, ma tale scelta era
ideologica, priva di un fondamento realmente architettonico. Per
esempio, l’International Style venne adottato in maniera fanatica dai
sovietici in nome di un futuro collettivo e della liberazione
dell’umanità attraverso l’industria e il progresso; ma anche dai
capitalisti, che intendevano invece promuovervi l’industria edilizia,
l’immagine nuova di uno sviluppo liberato dai vecchi modelli, e giunsero
fino ad organizzare mostre di architettura modernista per… contrastare
l’ideologia sovietica.
Identificare l’architettura con la
politica non ha senso, ha importanza però il fenomeno generale. Oggi
l’architettura nichilista è diventata un’arma dell’imperialismo globale.
Non dico «capitalismo» di proposito, per escludere la stragrande
maggioranza dell’industria imprenditoriale e del libero commercio a
piccola e media scala, che risulta anch’esso minacciato dello stesso
imperialismo. Dietro ogni progetto architettonico di un’archistar si
trovano i tentacoli delle grandi compagnie del consumo globale. Il
risultato è triste: il sacrificio della cultura millenaria dei molti
luoghi del mondo sull’altare di una globalizzazione distruttiva.
D’altro canto, incredibilmente, la
sinistra appoggia questo meccanismo con tutto il suo cuore. Qualcuno,
forse un finto autoproclamato «esperto», ha detto che le archistar
rappresentano il pensiero libero, lo sviluppo radicale, la liberazione
della società, cioè, le stesse promesse fasulle che hanno condotto i
vari stati comunisti a sradicare il loro patrimonio artistico,
architettonico e urbano. Così trovo inseriti tra libri e saggi scritti
dai filosofi della sinistra che sognano una rivoluzione marxista,
immagini di edifici di archistar di moda oggi. I mercenari
dell’imperialismo consumistico globale lodati dai comunisti…
— Il neo-capitalismo globale di
tipo finanziario, terminato nella grande crisi mondiale che stiamo
vivendo, trae origine, se così si può dire, dall’abrogazione da parte
del presidente Bill Clinton nel 1999, del Glass-Steagall Act, cioè
quella legge che prevedeva la separazione tra attività bancaria
tradizionale e attività bancaria di investimento. Può trovare un
parallelo con l’architettura contemporanea, ad es. con la mostra di
Philip Johnson nel 1988 a New York, che sancì la nascita del
Decostruttivismo?
Non sono un economista e dunque non
posso dire niente in merito alla legge di Glass e Steagall, se non che
ha cancellato una separazione molto saggia posta in essere anni fa per
impedire una sovraconcentrazione del potere finanziario. E, come accade
quasi sempre in questi casi dove i nostri predecessori, considerando la
fallibilità umana, hanno previsto un futuro pericolo, i due politici
avevano ragione. Cancellare la separazione di diverse funzioni
finanziarie ha certamente aiutato, se non addirittura condotto, a una
corruzione del sistema finanziario, e dunque al collasso economico che
vediamo negli ultimi tempi.
Quest’analogia economica serve a
sottolineare la corruzione del sistema architettonico che oggi governa
il mondo della progettazione e delle costruzioni. Non c’è nessuna
separazione tra coloro che producono architettura e coloro che
dovrebbero avere la responsabilità di salvaguardare il patrimonio del
passato, ad es. garantendo l’adattabilità dei prodotti architettonici e
urbani. Messi insieme sono diventati una casta dirigente che si
autopromuove vergognosamente. Architetti, studi d’ingegneria edilizia,
critici, accademici nelle scuole d’architettura, politici, enti e
imprenditori di costruzione partecipano allo stesso gioco, e dalla
stessa parte. Non esiste nessuna ragione fondamentale per costruire
mostruosità inumane, se non l’influenza dell’ideologia nichilista. Per
esempio, l’economia sommersa della malavita che entra in gran parte
della costruzione attuale non è legata a uno stile architettonico
specifico, e persino essa non trae alcun vantaggio dall’erigere edifici
aberranti. Eppure, questa «macchina» sta costruendo in tutto il mondo,
utilizzando gli stessi identici modelli architettonici inumani ovunque.
Philip Johnson era un carattere
luciferino che aveva ambizioni politiche, e per perseguirle fondò il
partito nazi-fascista americano negli anni 1937. Sfumato il sogno di
assumere il controllo del governo degli Stati Uniti, si dedicò poi a
tessere un sistema di potere alternativo, nell’architettura. La sua
lunga vita (è morto a 98 anni) lo ha aiutato a influenzare l’arte del
costruire in quasi tutto il mondo per quasi un secolo. Oggi viviamo
nell’incubo creato da Johnson, perché quasi tutti i grandi progetti
architettonici, ovunque, sono legati in via diretta o indiretta con il
gruppo degli architetti decostruttivisti da lui raccolto nel 1988. E la
stampa, strumento propagandistico del globalismo consumistico, promuove
queste architetture per glorificarne l’ideologia. Il nihilismo
filosofico di Johnson è diventato una sorta di religione officiata e
diffusa dalle forme degli edifici più à la page in tutto il mondo. Ma
quasi nessuno sembra notarlo, perché la gente è intorpidita.
— La soluzione per una progettazione a misura d’essere umano può insegnarci qualcosa per uscire dalla crisi, secondo lei?
Certo che sì. Ambedue i problemi si
risolvono con un ritorno alla progettazione e alla vita a scale umane,
abbandonando la misura globale/consumistica. Quest’ultima è la
conseguenza del potere fuori controllo responsabile della manipolazione
della maggioranza del popolo a vantaggio dell’ideologia. La soluzione
sta nell’inversione delle scale. Come ha detto il grande economista
Fritz Schumacher nel 1973, «Small is Beautiful», piccolo è bello. È
molto più difficile manipolare la gente in un sistema dove l’esperienza
si ricicla all’interno di cerchi a scala umana, cioè dove vigono una
certa autonomia, e un sistema di legami locali e non globali. Sarebbe
allora del tutto naturale abbandonare le dittature delle grandi firme
edilizie multinazionali che distruggono il patrimonio del territorio,
per tornare invece a rivolgersi ai veri bisogni locali.
Io però porrei innanzitutto una
questione pratica: data la crisi che hanno contribuito a creare,
sopravvivranno o no le grandi firme edilizie legate al sistema
consumistico globale che utilizza tipologie e architetti alla moda?
Probabilmente no, e il collasso parziale del sistema economico porterà
con sé un cambiamento anche in questo settore. Dunque un ritorno
all’edilizia a piccola scala, controllata degli utenti stessi, equivarrà
a una salvezza. Non perché il mondo si è finalmente svegliato, ma
perché non c’è altra possibilità. La morte dei dinosauri su scala
globale lascia fiorire le piccole creature. Lo stesso modello si applica
anche in modo inverso: cioè, un ritorno all’edilizia a scala umana
potrebbe forse salvarci dal collasso globale che sembra essere il
destino di questa società cieca.
— Quali sono le sue speranze per il futuro, e per quello dei suoi figli?
Personalmente non nutro alcuna speranza
per il futuro. La razza umana si è dimostrata simile alle formiche nel
suo comportamento, seguendo dogmatismi distruttivi e capi narcisisti e
folli. Più volte siamo andati verso l’autodistruzione parziale, penso ad
es. a quella di intere nazioni e civiltà. Non sto parlando soltanto dei
grandi dittatori: mi riferisco davvero alle archistar come paradigmi
del medesimo profetismo nocivo. Oggi, però, l’economia e la società sono
iperconnesse e globalizzate, cioè verso l’autodistruzione ci si va
insieme, e nessuno sarà risparmiato. Quando vedo che gli stessi
mercenari di un’architettura assurda costruiscono ad Atlanta e Astana, a
Beijing e Buenos Aires, a Dubai e a Durban, riscontro la prova che
l’infezione ideologica è ormai diffusa in tutto il globo. Non c’è nessun
posto dove si possa sfuggirla. I media globali penetrano ogni angolo
del pianeta.
Ai miei figli ho provato a insegnare la
differenza tra la vita e la morte, tra il genuino e il falso, tra la
creazione e la distruzione, tra l’amore per la natura e l’umanità e
l’odio che vediamo oggi nelle cosiddette “arti contemporanee”,
includendovi design, letteratura, musica, e anche la religione
«rinnovata». Almeno imparano cosa sono le vere arti umane del passato,
le grandi creazioni della mente attraverso i secoli. Ho provato a
insegnar loro a riconoscere un ordine superiore che è l’unico antidoto
alla propaganda globale che promuove dogmi e prodotti anti-umani e
anti-vita. Ma soprattutto spero di essere riuscito a trasmettere loro il
senso della magnifica capacità creativa dell’essere umano, oggi negata e
soppressa perché una piccola casta vuole che compriamo tutti gli stessi
prodotti industriali, dal cibo, all’arte, alle idee che formano la
nostra percezione del mondo.
Fonte:Biourbanistica.com
INTERESSANTE
RispondiElimina