Di Paolo Cacciari
Leggo da www.greenreport.it, ottima agenzia specializzata in questioni ambientali, e trovo conferme nel sito di People’s Coalition on Food Sovereignity e in Pressafrik,
una delle rare agenzie giornalistiche che si occupano del continente
subsahariano, che il 26 ottobre scorso, al culmine di scontri che si
protraggono da mesi tra le autorità e le popolazioni del villaggio
contadino di Fanaye, nel dipartimento settentrionale di Podor, sulle
rive del fiume Senegal, ci sono stati due morti e decine di feriti.
I contadini in Senegal, come in tante altre parti del mondo, dall’India al Sud America, si oppongono al landgrabbing,
la pratica, messa in atto diffusamente da parte delle multinazionali
straniere dei vari business agroforestali, di accaparramento di suoli
fertili. Con le buone o le cattive, comprando o corrompendo, si fanno
consegnare dai governi “terre comuni”, comunitarie, utilizzate per usi
consuetudinari secolari da contadini e pastori locali, per impiantare
coltivazioni industriali estensive, spesso utilizzando sementi Ogm,
orientate all’esportazione di prodotti alimentari e no-food. La Cina si
sta comprando mezza Africa per garantirsi riserve alimentari. Le imprese
agro-chimico-farmaceutiche per produrre bioetanolo e biodisel.
Nulla di nuovo, si dirà. Tant’è che notizie del genere non trovano
nemmeno una riga nei nostri quotidiani, zeppi come sono di informazioni
essenziali sulle abitudini sessuali del premier e sugli andamenti
altalenanti dei listini di borsa. Salvo poi trovarsi impreparati e
stupirsi di fronte alle “primavere” che sempre più spesso, per fortuna,
scoppiano nel mondo, anche e proprio per ragioni che hanno a che fare
con la predazione delle terre e le crisi alimentari.
In India, come ci raccontano puntualmente Vandana Shiva e Arundhati
Roy, la resistenza dei contadini alla “industrializzazione”, leggi
esproprio e saccheggio delle terre, conta centinaia, migliaia di
suicidi. In Africa le lotte avvengono in condizioni di disparità ancora
più drammatiche. Ma qualche volta, come nel caso del piccolo villaggio
di Fanay, la popolazione è riuscita a coalizzarsi, a trovare solidarietà
e visibilità nella città di S. Louis, a organizzare cortei ed ottenere
ascolto dal primo ministro senegalese Souleymane Ndéné Ndiaye che – dopo
i luttuosi scontri – è stato costretto a dichiarare “sospeso” il
progetto di trasformazione ad agricoltura intensiva industriale e
concessione a privati di 20.000 ettari. Una storia, tra le tante, di
dolore, ma anche, tra le poche, di successo.
Perché, allora ce ne occupiamo, e ci meravigliamo che nei giornali
italiani, che si vantano di essere così professionali e così pluralisti,
non se ne sia parlato? Per due ragioni
L’impresa che d’accordo con il governo senegalese aveva ottenuto
l’autorizzazione allo sfruttamento dei 20.000 ettari è italiana. E’ una
holding con sede a Dakar, si chiama “SenEthanol SA” ed è partecipata da
ABE Italia Srl. Non ne sappiamo di più, né abbiamo avuto voglia di
indagare. Ci è bastato leggere nel loro sito che: “Il Senegal è stato
scelto per la sua consolidata stabilità politica, per il legame EURO-CFA
a cambio fisso, per la reperibilità di manodopera”, e per mettere a
frutto “le importanti conoscenze agronomiche sviluppate negli anni (…)
per la coltivazione e trasformazione della patata dolce”.
La seconda ragione è che i nostri intraprendenti compatrioti stanno
appunto sviluppando il business delle “energie alternative”. Vale a dire
sottrarre terra fertile alle economie locali di autoproduzione e
sussistenza per produrre bio-carburanti da esportazione con cui
alimentare i nostri parchi macchine. E’ la forza del mercato, la “mano
invisibile” che regola i rapporti sociali: se noi siamo disposti a
pagare la patata dolce del Senegal più di quello che sono disposte a
pagare le popolazioni locali, è giusto che noi le si utilizzi come più
ci piace, magari per alimentare il SUV fornitoci da Marchionne con cui
andare a comprare il giornale ed avere anche la coscienza ecologica
pulita: il bilancio di CO2 emesso in atmosfera sarà minore di quello
prodotto con combustibili derivati dal petrolio. In compenso avremmo
trasformato una parte di contadini africani in operai agricoli
sottopagati e super sfruttati e la parte “eccedente” in aspiranti
emigrati, in profughi ambientali, in spossessati e diseredati.
Sempre nel sito della ditta SenEthanol si afferma: “Il bioetanolo è
oggi un’ottima fonte energetica oltre che un’eccellente materia prima
per autotrazione”. Come è facile essere “green economy”!
Per avere una dimensione più completa di quello che sta succedendo in
Senegal, riporto una parte del dispaccio di Greenreporter del 31
ottobre. “In un’intervista a Wal Fadjri, Amadou Kanoute, direttore
esecutivo dell’Institut panafricain de recherche, de formation et
d’action pour la Citoyenneté, les Consommateurs et le Développement
(Cicodev) ha rivelato che dal 19 marzo 2000, quando il presidente
liberista Abdoulaye Wade e la sua famelica cricca hanno preso il potere,
in Senegal ci sono cifre che danno i brividi: «650.000 ettari di
terreni sono stati svenduti a 17 privati senegalesi e stranieri, tra cui
italiani e spagnoli, tra il 2000 e oggi. A questo ritmo, ci si chiede
che cosa la politica attuale lascerà in eredità alle generazioni
future».
Quello della Senethanol è solo l’ultimo episodio ed è la faccia
visibile di un iceberg fatto di ingiustizia e dolore. A Mbane sono stati
svenduti 202.141 ettari, in soli 3 anni a Goana e Reva sono stati
concessi ai privati 189.190 ha, più o meno tutta la superficie della communauté rurale
(190.600 ha). Le amministrazioni locali guidate dall’opposizione sono
state messe fuori gioco e le proteste represse dalla gendarmerie, come a
Sangalkam, dove il 30 maggio è stato ucciso un giovane, Malick Bâ,
durante una manifestazione popolare contro il saccheggio dei 195 kmq del
territorio comunitario.
Il governo liberista punta a cancellare le terre della communauté rurale dal Senegal, che comprendono pascoli, zone abitate, foreste protette. A luglio i contadini della communauté rurale
di Diokoul hanno occupato le strade per esigere la restituzione dei
loro campi accaparrati dalla fattoria Mame Tolla del Presidente della
Repubblica Abdoulaye Wade: 2.070 ettari appartenenti a 99 contadini di 4
villaggi: Diokoul, Nguer-Nguer, Yadiana e Dahra. L’esproprio
presidenziale ha provocato una migrazione di massa dei bambini dei
villaggi a Dakar, alla ricerca di cibo nei mercati o come “schiavi
domestici”.
L’associazione “Sam sa momel”, della comunità rurale di Bambilor, è
da diverse settimane sul piede di guerra contro la confisca delle terre
da parte della Comico e di altri “promotori” e sta tentando la via
giudiziaria con tre denunce contro la distruzione dei loro beni terrieri
da parte dei “vampiri fondiari”.
Da Democrazia Km Zero
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