Uno sguardo sul fronte interno:
una teoria libertaria delle relazioni internazionali
DI JUSTIN RAIMONDO
Antiwar.com
Perché gli Stati Uniti sono coinvolti
in una guerra senza fine in tutto il mondo? Perché, in materia bellica,
le nazioni o, meglio, i loro governi si comportano nel modo a cui
quotidianamente assistiamo? Il numero di risposte è senza dubbio quasi
uguale al numero di interlocutori. “Si tratta di economia”,
dicono i marxisti (e gli hamiltoniani): l'imperialismo è la fase suprema
del capitalismo. No, dicono i "realisti", tutto verte sugli oggettivi
"interessi"
delle varie nazioni e sull'interazione di questi "interessi" in campo
internazionale. I neoconservatori hanno una spiegazione diversa: è tutta
una questione di "volontà" e "scopo nazionale" o della mancanza di
queste: intrisa dell’ideale della nostra "grandezza nazionale" l'America
diffonderà la democrazia in tutto il mondo, altrimenti andrà incontro a
un declino vergognoso in cui la perdita spirituale precederà la perdita
dello spirito guerriero.
Eppure nessuna di queste teorie apparentemente
dominanti fornisce una spiegazione adeguata sul come e sul perché
ci troviamo nella situazione attuale. L'America ha mandato in bancarotta
sé stessa per costruire un impero globale con basi, protettorati,
colonie in ogni continente; eppure ci ostiniamo ancora a perseguire
una politica che ci sta portando sull'orlo dell'abisso finanziario.
La nostra rete di ammortizzatori sociali è in gravi condizioni e mostra
molti segni di fallimento: il nostro sistema bancario è un traballante
castello di carte e la crisi immobiliare nazionale - l'ultima bolla
finanziaria a manifestarsi - sta trascinando il ceto medio-basso nella
miseria. Eppure inviamo miliardi, anzi, migliaia di miliardi di dollari
oltreoceano per puntellare un precario impero all'estero. Come è possibile
questo, e perché è successo?
Nel postulare una teoria libertaria
dei rapporti internazionali dobbiamo tralasciare il prescrittivo per
concentrarci sul descrittivo: cioè, dobbiamo ignorare, per il momento,
la questione di ciò che la politica estera ideale dovrebbe essere per
concentrarci sulla descrizione di come le nostre attuali politiche sono
formulate e attuate. Iniziamo quindi con la questione di chi in questo
momento decide la politica estera.
Ci viene detto che nelle società “democratiche” è il popolo a
prendere le decisioni, perché, in teoria, i cittadini non richiamano
i politici alle loro responsabilità solo quando si recano alle urne,
ma anche nelle tribune dell’opinione pubblica e qualsiasi apparato
parlamentare condivide il potere con l’esecutivo. Nella pratica, invece,
la politica estera è un regno completamente separato, è il dominio
di "esperti" e specialisti nascosti nei think tank
* e, naturalmente, nelle alte sfere del Consigli di Stato.
Inoltre, a meno che non sia in corso
una guerra - evento che ha un effetto evidente sulla vita economica
e politica della nazione -, la politica estera è l'ultima delle
preoccupazioni dei cittadini. Ciò è particolarmente vero
negli Stati Uniti, ma anche in un contesto più ampio: è naturale che
le persone di solito siano interessate agli eventi loro più prossimi,
perché hanno una maggiore conoscenza del relativo contesto.
Questa presa di distanza dei cittadini dal processo decisionale è accentuata,
negli Stati Uniti, dall'erosione del potere del Congresso nel campo
della politica estera. Negli ultimi giorni dell'impero americano, la
politica è fatta quasi interamente all'interno della Casa Bianca e
dalla burocrazia della sicurezza nazionale: il Congresso ha ceduto i
suoi poteri in materia bellica molto tempo fa.
Il comportamento dell’America, come
di qualsiasi altro paese, in materia di politica estera è quindi il
campo d’azione di un gruppo molto piccolo al vertice della piramide
politica: quello che potremmo chiamare, in mancanza di una migliore
descrizione del gruppo, la classe dirigente, anche nota come "Establishment".
Questi sono i principali attori sulla scena mondiale, oltre a soggetti
non incardinabili in schemi definiti, come i gruppi terroristici, i
vari movimenti di “liberazione” e George Soros.
Per rispondere alla domanda posta all'inizio di questo articolo, è
necessario chiedersi che cosa motiva l’Establishment: cosa
lo induce al raggiungimento del consenso e all’azione? Per i libertari
e per quelli che hanno una mentalità realistica, che non sempre coincidono
con la stessa persona, la risposta è semplice: è tutta una questione
di potere.
Il mantenimento e l'espansione del
potere politico sono stati l’obiettivo centrale di ogni classe dirigente
nel corso della storia, non importa quale fosse il declamato orientamento
ideologico. Le dittature, le democrazie e tutte le forme di governo
che sono configurabili in una posizione intermedia tra queste due modalità
di organizzazione politica hanno questo tratto in comune: il mantenimento
e l'espansione del potere politico sono il principio organizzativo alla
base della macchina politica, l’idea alla base delle azioni. Le varie
spiegazioni ideologiche delle proprie azioni offerte da queste élite
sono sempre razionalizzazioni di azioni fatte per il proprio tornaconto
e, quindi, in ultima analisi, tali spiegazioni si rivelano irrilevanti:
per esempio, la vecchia élite comunista faceva finta di lavorare per
la creazione del sistema comunista in tutto il mondo, ma in realtà
si dedicava alla creazione del "socialismo in un paese" per
accumulare indebitamente ricchezza. In Occidente i leader politici
insistono nell’asserire che il loro obiettivo è la diffusione della
democrazia liberale e dei relativi presunti benefici economici, ma la
realtà è che sono più interessati alle loro campagne elettorali e
alle relative probabilità di vittoria: i motti antichi della classe
dirigente anglosassone, che ha diffuso il principio della "noblesse
oblige", sono così logori e ridotti a brandelli che nessuno
si preoccupa nemmeno di invocarli più.
I politici, insomma, sono in politica
per rimanervi: il loro interesse è acquisire e mantenere il potere,
e questo è ciò che li motiva in tutte le questioni nazionali
e straniere. L’"interesse nazionale", la "rivoluzione
mondiale", il destino peculiare che viene offerto a noi in qualità
di beneficiari canonizzati dell’"eccezionalismo americano",
tutti questi diversi marchi ideologici dalla fumosa consistenza, usati
fino al completo logorio, altro non servono che a mascherare con varie
tonalità di retorica senza alcun costrutto nudi interessi egoistici.
Un governatore saggio, come ad esempio
Marco Aurelio, poteva pervenire alla lunga durata del suo governo (per
non parlare del positivo giudizio della storia) tramite il perseguimento
della pace, di politiche relativamente benefiche, mentre un folle e/o
un malefico come Hitler poteva perseguire politiche che sembrassero
espandere il loro potere nel breve, ma lo distruggevano nel lungo periodo.
Entrambi, però, erano di fatto motivati dalla soverchiante ambizione
di indossare l'Anello del Potere e quindi di modellare il corso degli
eventi.
Nel cercare di capire perché
i governi si comportano in un modo o nell’altro in politica estera,
il primo compito di un osservatore intelligente è quello di guardare
verso il fronte interno. Le spiegazioni "ufficiali" per le
azioni belliche sono sempre legate a qualche "crisi" presente
a migliaia di chilometri di distanza, di solito attribuita ai vili atti
del cattivo del mese. In realtà, la vera causa di solito molto molto
più prossima e ci riguarda direttamente.
Per esempio, diamo un'occhiata agli
eventi in Libia, per i quali ci è stato detto che se gli Stati
Uniti e la NATO non fossero intervenuti ben centomila civili sarebbero
stati massacrati dalle forze fedeli a Muammar Gheddafi. Questa presunta
"crisi umanitaria", tuttavia, si è rivelata essere simile
ad altre diffuse con la propaganda tipica delle guerre precedenti, alla
pari dei bambini uccisi negli incubatrici in Kuwait, ma non così convincente
quanto quella dei bambini belgi che si dice siano stati infilzati sulle
baionette del Kaiser.
Lo stiamo facendo per "i bambini":
questo è il tipo di guerra che il Segretario di Stato Hillary
Clinton può sostenere! E lei certamente lo ha fatto: infatti,
è stata lei, in combutta con altre due importanti arpie "progressiste"
dell’alto comando della sicurezza nazionale, a chiedere che gli Stati
Uniti intervenissero in Libia, decisione che il presidente era chiaramente
riluttante a prendere. Eppure ha accettato per accontentare l'ala clintoniana
del suo partito, sempre più inquieta, che sta aggressivamente spingendo
perché Hillary sostituisca Biden nel 2012 e per placare George Soros.
La dichiarazione improvvisa di una "crisi umanitaria" è stata,
lapalissianamente, un ridicolo pretesto per l'intervento, cosa che si
è resa ancor più chiara a posteriori, quando una vera crisi umanitaria
è stata causata dai diversi ribelli delle "milizie" nelle
roccaforti lealiste come Sirte e nella Libia occidentale in genere.
La vera ragione dell'avventura libica
è stata la necessità di evitare una crisi politica all'interno
della coalizione dei Democratici: Obama voleva una "squadra di
rivali" e questo è ciò che ha ottenuto. Dopo aver ceduto
la politica estera della sua amministrazione ai Clinton, il presidente
non ha avuto altra scelta che lasciare che Hillary affermasse sé stessa:
quella della Libia è stata la sua guerra e Obama le ha dato spazio
per ragioni puramente interne.
La nostra politica imbarazzante e vacillante
sulla questione palestinese, e il conflitto israelo-palestinese in generale,
è un altro esempio lampante di come le dinamiche della politica interna
possano guidare il processo decisionale della politica estera. Dopo
un inizio promettente, l'amministrazione Obama ha abbandonato la sua
politica di "grande equilibrio", tanto vituperata dai neoconservatori,
e ha finito con il capitolare dinanzi agli israeliani, riluttanti a
tale svolta politica, e alla loro politica di "insediamento",
unendosi a loro anche nel disdegnare l’offerta dell'Autorità Palestinese
per il riconoscimento dinanzi alle Nazioni Unite di un obiettivo a lungo
perseguito da presidenti degli Stati Uniti, tra cui Bill Clinton e George
W. Bush: la creazione di uno Stato palestinese. Perché questo improvviso
voltafaccia?
Come una volta sottolineò il
candidato dei Democratico alla presidenza Wesley Clark, i grandi donatori
del partito, "la gente con i soldi di New York", non
vede di buon occhio i candidati che non concordano con la linea del
governo israeliano. La tempistica degli eventi che hanno portato al
veto alle Nazioni Unite è un indizio: è avvenuto appena una settimana
dopo la sconfitta di un Democratico in un distretto congressuale ebraico
di New York, sino ad allora profondamente democratico. L'ultima tensione
in rapido acuirsi nelle relazioni tra USA e Iran, il falso complotto
“terrorista” iraniano - presumibilmente realizzato da un venditore
di auto usate alcolizzato - è ancora di più la prova evidente che
la politica estera è poco connessa a quello che accade in realtà,
mentre esercitano su di essa grande importanza le esigenze politiche
dei vari attori della vita politica interna del paese. In un'epoca in
cui le prospettive di rielezione del presidente si fanno sempre più
cupe, l'amministrazione Obama ha paura di perdere i donatori chiave
e i blocchi di voto che dubitano del suo impegno per la “sicurezza”
di Israele. Così, voilà, la grande inversione di rotta è fatta.
Nell’asserire che la politica interna
di un Paese è fondamentale per comprendere le relazioni con gli altri
Stati, è importante non fare distinzioni, sia ideologiche che strutturali.
Cioè, non si devono considerare nel ragionamento le descrizioni autoreferenziali
e altri concetti che mascherano la comunanza di fondo di tutti gli Stati
in tutto il mondo. Se stiamo parlando di democrazie, o monarchie, "repubbliche
della gente" sul vecchio modello sovietico o repubbliche delle
banane alla Hugo Chavez, si applica la stessa regola: l’"establishment",
sia esso capitalista, "socialista", teocratico, o di qualunque
altro sapore ideologico è tenuto e determinato a mantenere il potere,
e farà di tutto per acquisirne di più.
Questa comunanza è dimostrata
dal fatto che le democrazie hanno le stesse probabilità di impegnarsi
nelle guerre imperialistiche quanto le dittature di qualsiasi tipo:
la nostra attuale politica della guerra infinita dimostra questa regola
in modo abbastanza drammatico, e la storia lo conferma. La Gran Bretagna,
di gran lunga l'impero più liberale e democratico che sia mai esistito,
era allo stesso tempo il più grande aggressore, espandendo senza sosta
l'impero in quasi tutti i continenti, abolendo la schiavitù ma schiavizzando
milioni di persone sotto altre forme. I rivoluzionari francesi erano
allo stesso modo espansionisti, come dimostra chiaramente la carriera
di un famoso caporale francese. Come Roma, l'Atene dell'antichità classica,
fondatrice dell'ideale democratico, era inizialmente una repubblica
e successivamente ha costituito un impero nel Mediterraneo, che alla
fine è andato in rovina.
Una teoria libertaria degli affari
esteri inizia con l'assioma che chi detiene il potere ci vuole rimanere:
tutto il resto segue da questa proposizione di base. È il "tutto
il resto", tuttavia, a essere la parte importante e non un mero
dettaglio da chiarire successivamente. Poiché la politica e le decisioni
politiche sono fatte da persone reali, non da "forze" impersonali
e da astrazioni fluttuanti, il contesto specifico in cui vengono prese
queste decisioni è la chiave per comprendere il corso degli eventi.
Non basta dire che c'è qualche grande complotto organizzato dagli Illuminati,
dai partecipanti al Bilderberg o dai Savi di Fandom, i quali operano
dietro le quinte e manipolano la "crisi" del momento a proprio
vantaggio. È necessario citare dettagli particolari, cioè connessioni
causali tra specifici individui, certe scelte politiche e i benefici
ottenuti.
Questo è il motivo per cui il
giornalismo è una branca importante delle arti letterarie, e perché
il suo declino è un duro colpo per la causa della pace e della libertà.
Senza dettagli specifici e senz’armi di fronte ai fatti, né l'analista
professionale né il cittadino interessato possono ottenere un indizio
su ciò che sta accadendo nella più grande, e più pericolosa, potenza
del pianeta. Ecco perché Antiwar.com è uno strumento così importante
nella lotta contro il militarismo e l’interventismo: perché portiamo
alla vostra attenzione le informazioni che non vogliono farvi conoscere.
Il nostro orecchio è sempre a terra, ascoltando i segni rivelatori
di un'altra "guerra per la democrazia" e/o "crisi umanitaria"
che richiedano l'intervento militare degli Stati Uniti. Portandoli aldilà
dei titoli dei giornali, diamo ai nostri lettori notizie importanti
sulle ultime mosse del Partito della Guerra e, come il Partito della
Guerra, non ci fermiamo mai.
Non possiamo riposare, perché
la tendenza dei governi a cercare costantemente opportunità di
espandere il proprio potere, anche oltre i confini nazionali, è
intrinseca al potere stesso e quindi costante. Non può essere né eliminata
né ignorata: deve essere costantemente osservata e sfidata. Ecco perché
siamo qui, e per questo dobbiamo continuare a essere qui sino a quando
i governi esisteranno.
* Un think tank
(letteralmente "serbatoio di pensiero" in inglese) è un organismo,
un istituto, una società
o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche
(anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale
alla strategia politica, dalla economia
alla scienza e la tecnologia,
dalle politiche industriali
o commerciali alle consulenze militari.
Fonte: Why Governments Make War
26.10.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA
Da Come Don Chisciotte
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