Come ti esporto la democrazia
Si narra che il primo automa sarebbe stato la colomba meccanica inventata da Archita di Taranto che, attraverso i suoi calibrati voli, desiderava ornare di grazia la geometria. Nella realtà presente, altri automi solcano i cieli disegnando ben altre geometrie: mini-aerei telecomandati che nel linguaggio tecnico dei militari sono indicati con l’acronimo Uav (Unnmanned Aerial Veihicles), mentre sui giornali vengono chiamati droni.
Apparentemente, la parola drone suona in modo senz’altro più rassicurante di Vergeltungswaffen (Arma di rappresaglia), il nome dato dal ministro della propaganda nazista J. Goebbels alle bombe volanti tedesche Fi 103, meglio conosciute come V1. In realtà i termini Predator e Reaper che indicano i due principali modelli Usa di drone non sono meno inquietanti, ma soprattutto è inquietante la parentela tecnologica e terroristica che lega questi strumenti di morte.
L’impiego massiccio delle bombe volanti V1 fu infatti determinato dalla necessità di bombardare obiettivi civili e militari (in territorio britannico e, successivamente, belga), risparmiando aerei e soprattutto piloti dell’ormai decimata Luftwaffe.
La bomba V1 aveva l’aspetto di un piccolo aereo a reazione ed era guidata da un rudimentale ma efficace “pilota automatico”; inoltre, molti di questi ordigni vennero dotati di un trasmettitore radio per meglio controllare a distanza la direzione di volo e il puntamento sul bersaglio.
Nonostante le misure di difesa contro-aerea, soltanto a Londra le V1 causarono la morte accertata di 6184 persone, per lo più civili; imprecisato invece il numero delle vittime nel resto dell’Inghilterra e in Belgio.
In modo analogo, in questi ultimi anni è andato aumentando l’impiego bellico (nonché la produzione e l’acquisto) dei piccoli aerei senza pilota, ad alta tecnologia, conosciuti appunto come droni, con prevalenti scopi offensivi e non più soltanto di ricognizione. Infatti, grazie alla loro guida a distanza, permettono di colpire con missili e bombe bersagli lontani migliaia di chilomentri tramite collegamento satellitare Gps, radar, tastiere, visori infrarossi, monitor e joystick non molto dissimili da quelli di un videogioco.
Così, senza dover mettere a repentaglio piloti e aerei ben più costosi, è possibile combattere impunemente guerre asimmetriche e non dichiarate, evitando di indignare l’opinione pubblica e qualche complicazione con il diritto internazionale.
Facendo tesoro dell’esperienza acquisita dallo stato israeliano nell’impiego contro i palestinesi, il militarismo statunitense ha iniziato ad usare tali armi durante l’amministrazione Bush, dopo l’11 Settembre, ma la loro produzione e impiego stanno conoscendo una vera escalation sotto la presidenza di Obama, più attenta sia a salvaguardare l’immagine ipocritamente pacifista ma anche a limitare spese militari sempre meno sostenibili in tempi di crisi.
Fin dai primi giorni del suo mandato, Obama ha infatti optato per continuare la precedente politica di guerra privilegiando i droni, senza neanche rendere pubblica tale decisione, allargando l’area dei conflitti in Irak e Afghanistan al Pakistan, allo Yemen e alla Somalia, sempre col pretesto di colpire segretamente presunte basi di Al Qaeda e sempre con un corollario tragico di migliaia di civili massacrati; basti ricordare che l’amministrazione Obama ha stanziato per il 2011 quasi due miliardi e mezzo di dollari per aumentare il numero dei droni che sono entrati, massicciamente, in azione anche in Libia negli ultimi mesi.
Nel 2009, l’aviazione statunitense ne aveva ufficialmente in carico circa 200, ma il numero di quelli gestiti dalla Cia resta segreto, così come rimangono coperte le operazioni compiute. Bastano comunque le informazioni più o meno pubbliche per delineare un quadro di autentici crimini seriali di guerra compiuti in questi ultimi tre anni dai piccoli aerei senza pilota diretti e gestiti dalla base Usaf di Nellis, nel Nevada, mentre gli attacchi si susseguono ormai quasi quotidianamente.
Basti citare i più significativi attacchi statunitensi dell’ultima settimana nell’ostile regione pakistana del Waziristan settentrionale, ormai obiettivo di una sistematica campagna offensiva: il 27 ottobre un drone ha lanciato quattro missili contro un veicolo nella zona di Azam Warsak uccidendo cinque o sei presunti comandanti talebani, mentre un altro ha distrutto un edificio nel distretto di Mirali eliminando quattro presunti talebani; il 31 ottobre, un drone ha centrato con due missili un veicolo che stava attraversando un villaggio vicino Datta Khel, uccidendo tre presunti guerriglieri; il 3 novembre un drone ha colpito un sospetto covo talebano nei pressi della città di Miranshah, causando almeno tre morti.
Appena pochi giorni prima, il 29 ottobre, a Islamabad, il consiglio tribale del Waziristan, assieme ai familiari delle vittime degli attacchi e ad esponenti di associazioni per i diritti umani, hanno protestato e chiesto alla Corte suprema pakistana di intervenire per bloccare le stragi ad opera dei droni americani (ad agosto Peacereporter riferiva di 45 raid compiuti dall’inizio dell’anno, ma negli ultimi mesi il ritmo è ancora aumentato).
Oltre ad Israele e gli Usa, almeno una trentina di stati detengono ed utilizzano droni aerei militari tra cui Cina, Russia, Iran, Gran Bretagna, Francia, Pakistan, India, Georgia e Italia.
Lo stato italiano è coinvolto a diversi livelli su questo fronte. In primo luogo c’è il ruolo di primo piano nella produzione e nello sviluppo degli Uav da tempo giocato dal gruppo Finmeccanica e, in particolare, dalle associate Alenia Aerospazio e Galileo Avionica che per il 2011 preventivavano commesse per 22 miliardi di euro da Italia (il 19%), Cina, Usa, Gran Bretagna e svariati altri stati e staterelli, non esclusa la Libia. Inoltre, sul territorio italiano si stanno insediando importanti basi Nato per la proiezione nel Mediteraneo e nei Balcani dei droni con funzioni sia di sorveglianza che di eventuale offesa; la base principale, da anni operativa, è quella siciliana di Sigonella per i Global Hawk, mentre un’altra dovrebbe essere prescelta in Sardegna, presso le strutture militari di Decimomannu o di Salto di Quirra.
Le forze armate italiane dispongono già di un certo numero di droni ed è noto che ad Herat, in Afghanistan, dal 2007 (durante il governo Prodi) il contingente italiano impiega alcuni Predator e Reaper; ufficialmente il loro compito è la scoperta di obiettivi, ma da tempo si richiede di armarli (e non soltanto da destra).
Infine, in sintonia con i più recenti impieghi “polizieschi” dei droni (già usati in Usa, Francia e Gran Bretagna per compiti di ordine pubblico), anche in Italia il controllo aereo telecomandato viene preso in considerazione dagli apparati repressivi. A parte l’annuncio, nel 2007, dell’acquisto di due elicotteri-spia per la videosorveglianza cittadina fatto dal Comune di Milano (non sappiamo se ereditati dalla giunta Pisapia…), lo stato italiano come membro di Frontex -la nota Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne- risulta coinvolto del programma già avviato da tale organismo per il ricorso ai droni per il contrasto all’immigrazione “clandestina”.
Fino a poco tempo fa, poteva apparire uno scenario da fantascienza, ma ormai è nell’ordine attuale, anche se come avvertiva E.A. Poe: “L’automa non vince sempre. E se la macchina fosse una pura macchina non accadrebbe così”.
- Per chi vuole approfondire l’argomento si rimanda al libro “La guerra dei droni” di Sabina Morandi (Coniglio Editore, 2011).
Da Nexus Co
Si narra che il primo automa sarebbe stato la colomba meccanica inventata da Archita di Taranto che, attraverso i suoi calibrati voli, desiderava ornare di grazia la geometria. Nella realtà presente, altri automi solcano i cieli disegnando ben altre geometrie: mini-aerei telecomandati che nel linguaggio tecnico dei militari sono indicati con l’acronimo Uav (Unnmanned Aerial Veihicles), mentre sui giornali vengono chiamati droni.
Apparentemente, la parola drone suona in modo senz’altro più rassicurante di Vergeltungswaffen (Arma di rappresaglia), il nome dato dal ministro della propaganda nazista J. Goebbels alle bombe volanti tedesche Fi 103, meglio conosciute come V1. In realtà i termini Predator e Reaper che indicano i due principali modelli Usa di drone non sono meno inquietanti, ma soprattutto è inquietante la parentela tecnologica e terroristica che lega questi strumenti di morte.
L’impiego massiccio delle bombe volanti V1 fu infatti determinato dalla necessità di bombardare obiettivi civili e militari (in territorio britannico e, successivamente, belga), risparmiando aerei e soprattutto piloti dell’ormai decimata Luftwaffe.
La bomba V1 aveva l’aspetto di un piccolo aereo a reazione ed era guidata da un rudimentale ma efficace “pilota automatico”; inoltre, molti di questi ordigni vennero dotati di un trasmettitore radio per meglio controllare a distanza la direzione di volo e il puntamento sul bersaglio.
Nonostante le misure di difesa contro-aerea, soltanto a Londra le V1 causarono la morte accertata di 6184 persone, per lo più civili; imprecisato invece il numero delle vittime nel resto dell’Inghilterra e in Belgio.
In modo analogo, in questi ultimi anni è andato aumentando l’impiego bellico (nonché la produzione e l’acquisto) dei piccoli aerei senza pilota, ad alta tecnologia, conosciuti appunto come droni, con prevalenti scopi offensivi e non più soltanto di ricognizione. Infatti, grazie alla loro guida a distanza, permettono di colpire con missili e bombe bersagli lontani migliaia di chilomentri tramite collegamento satellitare Gps, radar, tastiere, visori infrarossi, monitor e joystick non molto dissimili da quelli di un videogioco.
Così, senza dover mettere a repentaglio piloti e aerei ben più costosi, è possibile combattere impunemente guerre asimmetriche e non dichiarate, evitando di indignare l’opinione pubblica e qualche complicazione con il diritto internazionale.
Facendo tesoro dell’esperienza acquisita dallo stato israeliano nell’impiego contro i palestinesi, il militarismo statunitense ha iniziato ad usare tali armi durante l’amministrazione Bush, dopo l’11 Settembre, ma la loro produzione e impiego stanno conoscendo una vera escalation sotto la presidenza di Obama, più attenta sia a salvaguardare l’immagine ipocritamente pacifista ma anche a limitare spese militari sempre meno sostenibili in tempi di crisi.
Fin dai primi giorni del suo mandato, Obama ha infatti optato per continuare la precedente politica di guerra privilegiando i droni, senza neanche rendere pubblica tale decisione, allargando l’area dei conflitti in Irak e Afghanistan al Pakistan, allo Yemen e alla Somalia, sempre col pretesto di colpire segretamente presunte basi di Al Qaeda e sempre con un corollario tragico di migliaia di civili massacrati; basti ricordare che l’amministrazione Obama ha stanziato per il 2011 quasi due miliardi e mezzo di dollari per aumentare il numero dei droni che sono entrati, massicciamente, in azione anche in Libia negli ultimi mesi.
Nel 2009, l’aviazione statunitense ne aveva ufficialmente in carico circa 200, ma il numero di quelli gestiti dalla Cia resta segreto, così come rimangono coperte le operazioni compiute. Bastano comunque le informazioni più o meno pubbliche per delineare un quadro di autentici crimini seriali di guerra compiuti in questi ultimi tre anni dai piccoli aerei senza pilota diretti e gestiti dalla base Usaf di Nellis, nel Nevada, mentre gli attacchi si susseguono ormai quasi quotidianamente.
Basti citare i più significativi attacchi statunitensi dell’ultima settimana nell’ostile regione pakistana del Waziristan settentrionale, ormai obiettivo di una sistematica campagna offensiva: il 27 ottobre un drone ha lanciato quattro missili contro un veicolo nella zona di Azam Warsak uccidendo cinque o sei presunti comandanti talebani, mentre un altro ha distrutto un edificio nel distretto di Mirali eliminando quattro presunti talebani; il 31 ottobre, un drone ha centrato con due missili un veicolo che stava attraversando un villaggio vicino Datta Khel, uccidendo tre presunti guerriglieri; il 3 novembre un drone ha colpito un sospetto covo talebano nei pressi della città di Miranshah, causando almeno tre morti.
Appena pochi giorni prima, il 29 ottobre, a Islamabad, il consiglio tribale del Waziristan, assieme ai familiari delle vittime degli attacchi e ad esponenti di associazioni per i diritti umani, hanno protestato e chiesto alla Corte suprema pakistana di intervenire per bloccare le stragi ad opera dei droni americani (ad agosto Peacereporter riferiva di 45 raid compiuti dall’inizio dell’anno, ma negli ultimi mesi il ritmo è ancora aumentato).
Oltre ad Israele e gli Usa, almeno una trentina di stati detengono ed utilizzano droni aerei militari tra cui Cina, Russia, Iran, Gran Bretagna, Francia, Pakistan, India, Georgia e Italia.
Lo stato italiano è coinvolto a diversi livelli su questo fronte. In primo luogo c’è il ruolo di primo piano nella produzione e nello sviluppo degli Uav da tempo giocato dal gruppo Finmeccanica e, in particolare, dalle associate Alenia Aerospazio e Galileo Avionica che per il 2011 preventivavano commesse per 22 miliardi di euro da Italia (il 19%), Cina, Usa, Gran Bretagna e svariati altri stati e staterelli, non esclusa la Libia. Inoltre, sul territorio italiano si stanno insediando importanti basi Nato per la proiezione nel Mediteraneo e nei Balcani dei droni con funzioni sia di sorveglianza che di eventuale offesa; la base principale, da anni operativa, è quella siciliana di Sigonella per i Global Hawk, mentre un’altra dovrebbe essere prescelta in Sardegna, presso le strutture militari di Decimomannu o di Salto di Quirra.
Le forze armate italiane dispongono già di un certo numero di droni ed è noto che ad Herat, in Afghanistan, dal 2007 (durante il governo Prodi) il contingente italiano impiega alcuni Predator e Reaper; ufficialmente il loro compito è la scoperta di obiettivi, ma da tempo si richiede di armarli (e non soltanto da destra).
Infine, in sintonia con i più recenti impieghi “polizieschi” dei droni (già usati in Usa, Francia e Gran Bretagna per compiti di ordine pubblico), anche in Italia il controllo aereo telecomandato viene preso in considerazione dagli apparati repressivi. A parte l’annuncio, nel 2007, dell’acquisto di due elicotteri-spia per la videosorveglianza cittadina fatto dal Comune di Milano (non sappiamo se ereditati dalla giunta Pisapia…), lo stato italiano come membro di Frontex -la nota Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne- risulta coinvolto del programma già avviato da tale organismo per il ricorso ai droni per il contrasto all’immigrazione “clandestina”.
Fino a poco tempo fa, poteva apparire uno scenario da fantascienza, ma ormai è nell’ordine attuale, anche se come avvertiva E.A. Poe: “L’automa non vince sempre. E se la macchina fosse una pura macchina non accadrebbe così”.
- Per chi vuole approfondire l’argomento si rimanda al libro “La guerra dei droni” di Sabina Morandi (Coniglio Editore, 2011).
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