Di Claudio Messora
Sta
succedendo qualcosa. Qualcosa che va oltre la crisi economica: sembra
più che altro una crisi di sovranità. E non è la questione di lana
caprina che tanto sembra preoccupare i nostri editorialisti di punta,
ovvero se sia giusto o meno farsi commissariare dalla UE e dall’FMI
rinunciando così – formalmente e pro-tempore – al possesso delle nostre
stesse chiavi di casa. E’ qualcosa di più profondo, una trama nella
trama che si può provare a spiegare in molti modi diversi, ma che non è
prudente lasciare che si dipani mentre l’attenzione generale si
concentra su alcuni personaggi e non su altri.
L’interesse che i mercati finanziari e le istituzioni globali dimostrano da
qualche tempo nei nostri confronti è sotto gli occhi di tutti, certo,
ma non è che la parte superiore dell’iceberg, quella sberluccicante
sotto ai raggi del sole.
I
giornali e le televisioni (chi più, chi meno) ci spiegano che siamo
commissariati da una terna di ferro, composta dal Fondo Monetario
Internazionale, dall’Unione Europea e dallaBanca Centrale Europea (BCE).
Un accerchiamento totale al quale il gioco della speculazione
internazionale ci consegna senza possibilità di fuga. Per il nostro
stesso interesse – si dice – e per quello dei sottoscrittori del nostro
debito dobbiamo realizzare una serie di riforme. E poiché non siamo più
credibili, forti pressioni costringono il Governo in carica a rassegnare
le sue dimissioni, nonché tutto un popolo a rinunciare alla propria
autodeterminazione. Mutatis mutandis è più o meno quanto è accaduto in
Grecia.
Il
principio più incredibile che viene sostenuto senza il benché minimo
stupore sarebbe quello secondo cui la politica da sola non può
realizzare misure impopolari, perché avrebbe il timore di giocarsi il
consenso elettorale, per cui sarebbe imperativo affidare le riforme
necessarie a un governo di larghe intese, oppure al cosiddettogoverno
tecnico, magari sotto la direzione di un podestà forestiero. Cosa
significa? Se i rappresentanti del popolo, democraticamente eletti, non
sono in grado di introdurre una o più misure ritenute necessarie, perché
i cittadini non le vogliono, allora va da sé che quelle misure non
rappresentano l’espressione della volontà popolare. Dunque, in una
democrazia, non dovrebbero essere adottate, o dovrebbero essere
posticipate magari dopo l’approvazione di un qualche emendamento
condiviso. Il concetto che si sta facendo passare, invece, è che
esistono riforme che devono essere realizzate a tutti i costi, al di là
della volontà popolare. In altre parole, si sostiene che se la classe
politica non è in grado di farsene carico, perché i cittadini non le
vogliono, allora deve farlo qualcun’altro.
Si
materializza cioè per brevi istanti, come in un episodio di Star Trek,
una volontà terza e invisibile che prende le decisioni passando sopra ad
ogni definizione di democrazia comunemente intesa. Una oligarchia
nascosta. O, meglio, una sinarchia.
Quando
la Grecia, non molti giorni fa, ha provato a forzare la mano sulla
propria sovranità popolare, annunciando un referendum sulle misure della
cosiddettaausterity, il sistema bancario internazionale ha reagito
minacciando di non tagliare più il debito pubblico del 50%. George
Papandreou è stato quindi convocato a una riunione preliminare del G20
ed è stato costretto a ritirare la proposta referendaria. Ma a quella
stessa riunione precongressuale, un altro coinvitato eccellente era
sotto torchio insieme al primo ministro greco: il presidente del
Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Date queste premesse, è davvero
singolare che il governo greco sia caduto un paio di giorni fa, subito
dopo la convocazione al G20, e che quello italiano stia per rassegnare
le dimissione pressocché simultaneamente. Ancor più singolare se si
prendono in considerazione i punti in comune tra le alternative avanzate
in entrambi i casi per rimpiazzare gli esecutivi: due governi tecnici
guidati da uomini esterni al meccanismo del consenso popolare, cioè due
podestà forestieri: Mario Monti e Lucas Demetrios Papademos.
Entrambi
hanno una formazione consolidata da una lunga permanenza all’estero,
negli Stati Uniti. Mario Monti si laurea alla Bocconi ma si specializza
all’Università di Yale, mentre Papademos si laurea in fisica e in
ingegneria presso il Messachussetts Institute of Technology, dove
consegue anche un master in economia. Insegna poi alla Columbia
University dal 1975 al 1984 dove, in quegli stessi anni, sta concludendo
il suo ciclo di insegnamento anche un signore di nome Zbigniew
Brzezinski. Di origini polacche, politologo e geostratega, Brzezinski di
lì a poco andrà ad occupare un posto estremamente importante per il
governo di Jimmy Carter: dal 1977 al 1981 sarà nel Consiglio di
Sicurezza Nazionale americano (NSA), influendo con la sua analisi
strategica sul rapporto che gli USA avranno in tutti i processi di
trasformazione politica più delicati della nostra storia, dall’invasione
sovietica dell’Afghanistan alla guerra fredda fino alla conversione
dell’Iran da alleato degli States a nemico giurato. Segnatevi dunque
questo nome: Brzezinski, perché fra poco ne riparleremo.
Le
carriere di Monti e di Papademos proseguono di buona lena. Il primo
diviene dapprima rettore e poi, alla morte di Spadolini, presidente
della Bocconi di Milano. E’ International Advisor per Goldman Sachs dal
2005, nonché presidente del think-thank Bruegel,
finanziato da 16 Stati e 28 multinazionali con lo scopo di influire
privatamente sulle politiche economiche comunitarie. Nel 2010 Barroso
gli commissiona un libro bianco sul futuro del mercato unico. Il
secondo, il greco, nel 1980 diviene un economista senior della Federal
Reserve Bank di Boston e poi della Banca di Grecia, di cui assume la
carica di Governatore. Poi addirittura vice Presidente della BCE. E’
proprio Papademos a traghettare Atene dalla drachma all’euro. Curioso
che adesso sia indicato come la personalità più adatta a rimediare ai
danni che, in qualche modo, ha contribuito a produrre.
E’
qui che entra in gioco Zbigniew Brzezinski perché è lui che, nel 1973,
viene incaricato da David Rockfeller di avviare un nuovo gruppo di
lavoro: la Commissione Trilaterale (The Trilateral Commission).
Nata con l’intento dichiarato di sviluppare i rapporti tra gli Stati
Uniti, l’Europa e il Giappone, la Commissione Trilaterale è
un’organizzazione non governativa e apartitica dove sostanzialmente si
discutono le politiche migliori per agevolare le relazioni di
interdipendenza reciproca, culturali e – perché no – d’affari. Un luogo
di incontro dove i potenti, insomma, possono discutere di ciò che è bene
per il mondo senza perdersi nelle lungaggini imposte dai parlamenti e
dalle burocrazie diplomatiche. Un club. Un club con tre cariche
fondamentali in rappresentanza del Nord America, Giappone ed Europa,
quest’ultima ricoperta proprio dal nostro Mario Monti. Che
soddisfazione! Ed è certamente significativo che tra i membri della Commissione Trilaterale,
dal 1998 figuri anche Lucas Papademos, in virtù dei rapporti che è
ragionevole supporre abbia sviluppato negli anni in cui insegnava alla
Columbia University insieme a Zbigniew Brzezinski.
A
onor del vero, se l’idea che la Commissione Trilaterale ha della
democrazia deriva da quella dei suoi fondatori, non c’è da stare
eccessivamente tranquilli. Sul St. Petersburg Times, il 2 agosto 1974,
Brzezinski pubblica le conclusioni di un rapporto dal
titolo molto esplicativo di “The Crisis of Democracy”: la crisi della
democrazia. Il rapporto evidenzia come negli Stati Uniti l’efficienza
della Casa Bianca fosse inficiata da un eccesso di democrazia e come,
fin dagli anni ’60, i governi dell’Europa dell’est fossero letteralmente
sopraffatti dall’eccessiva partecipazione e dalle richieste che le
burocrazia farraginose non erano in grado di smaltire, rendendo di fatto
i sistemi politici ingovernabili. Il rapporto rimanda a una decisione
politica adottata dalla Francia in semisegretezza, senza nessun
dibattito pubblico aperto e altamente lobbizzata e conflittuale. Sembra
che molti tra i membri della Commissione Trilaterale avessero un ruolo
di rilievo nell’amministrazione Carter e fossero decisamente influenzati
dal rapporto di Brzezinski.
Dunque
abbiamo due governi che stanno cedendo simultaneamente il passo alle
pressioni internazionali e due podestà forestieri, strettamente legati
al mondo della finanza, dei mercati, delle banche ed entrambi membri
della Commissione Trilaterale fondata da David Rockfeller, in prima
linea nella corsa a sostituirsi alla sovranità popolare per prendere
decisioni dichiaratamente impopolari, cioè contrarie alla volontà
popolare.
Come
se questa emorragia di rappresentanza democratica non bastasse, un
altro gruppo di lavoro sovranazionale fondato sulla segretezza delle
proprie risoluzioni, il gruppo Bilderberg, ha accolto tra i propri
ospiti nell’ultima esclusiva riunione tenutasi
nel giugno di quest’anno a St. Moritz proprio Mario Monti e, tra gli
altri, Giulio Tremonti, forse il più grande tallone d’Achille del
Governo italiano, artefice della paralisi che ha portato alla dèbacle
parlamentare di oggi.
Non
c’è democrazia senza trasparenza, né può esservi in mancanza di un
mandato popolare forte ed esplicito. E ancora, infine, tutto può essere
tranne democrazia la requisizione del nostro diritto di rappresentanza
in nome di logiche che vengono assunte a porte chiuse, nelle sedi
elettive dove si tutelano interessi privati, dove una ristretta èlite
decide le sorti di interi popoli senza che a questi venga garantita una
chiara percezione delle cose. Per questo dico che la sovranità popolare,
in questo momento, è un concetto chimerico che sta cedendo il passo a
una sinarchia di fatto, ovvero un governo ombra che in termini di real
politik è sempre esistito, ma che sta diventando dominante, al punto che
i suoi effetti iniziano a diventare palesi.
Fonte: Byo Blu
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