Da Atene ad Harvard: l’ortodossia economica sotto accusa

nov 20, 2011 0 comments
Ad Harvard gli studenti contestano le lezioni di Macroeconomia e scendono in strada con Occupy Wall Street. In Europa la crisi dei debiti sovrani favorisce cambi di governo (Grecia e Italia) ma è ben lungi dal venire superata. Siamo prossimi a un cambio di paradigma anche all’interno della teoria economica? Ne parliamo con Antonella Stirati, dell’Università di Roma Tre.

Intervista a Antonella Stirati di Emilio Carnevali

Agli studenti di economia di tutto il mondo il nome di Gregory Mankiw è estremamente familiare. È infatti l’autore di alcuni dei testi universitari più diffusi. Anche nel nostro paese “il Mankiw” è fra i manuali più adottati dai docenti di macroeconomia, forse secondo solo a quello firmato dall’attuale capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard (la cui edizione italiana è cofirmata da Francesco Giavazzi e Alessia Amighini).
Eppure qualche settimana fa gli studenti di Harvard, dove Mankiw insegna da molti anni, hanno contestato il loro celebre e blasonato insegnate accusandolo di offrire nelle sue lezioni una «specifica (e limitata) visione dell’economia», la quale perpetua «assetti di disuguaglianza economica inefficienti e problematici nella nostra società». «Uno studio accademico legittimo di economia», si legge nella “Open letter to Greg Mankiw” pubblicata dalla Harvard Political Review, «deve includere una discussione critica sia dei benefici che dei difetti dei differenti modelli economici semplificati. Siccome il suo corso non include fonti primarie e raramente adotta articoli di riviste accademiche, ci ritroviamo con uno scarso accesso ad approcci economici alternativi». Per manifestare con un gesto ancor più plateale questo disagio un nutrito gruppo di studenti ha inoltre abbandonato la lezione del 2 novembre unendosi alla marcia del movimento Occupy Wall Street in programma quel giorno a Boston.
Da una delle più prestigiose – e costose – università americane, che supera anche Yale per numero di ex studenti diventati presidenti degli Stati Uniti, ci è giunto l’ennesimo segnale di come la Grande Crisi scoppiata nel 2007/2008 sta scuotendo le basi non solo materiali del patto sociale costruito in Occidente nell’ultimo trentennio. Partire dai “fondamenti teorici” può essere un buon modo per analizzare con un punto di vista originale anche le turbolente vicende di casa nostra, che negli ultimi giorni hanno subito una improvvisa accelerazione con le dimissioni di Silvio Berlusconi e l'incarico per la formazione del nuovo governo conferito al professor Mario Monti. Ne abbiamo discusso con la professoressa Antonella Stirati, docente di economia all’Università di Roma Tre.

Professoressa Stirati, lei in queste settimane sta tenendo il corso base di Macroeconomia. Anche lei è stata contestata come è successo a Greg Mankiw, accusato di fornire una «specific - and limited - view of economics»?
(Ride) No…Se mai i miei studenti potrebbero voler protestare del contrario: sebbene si tratti di un corso di macroeconomia del primo anno io cerco di spiegare sin dall’inizio che esistono diverse impostazioni e, nei limiti del possibile, di illustrare quali sono le differenze, le discriminanti teoriche dalle quali conseguono diverse conclusioni rispetto al funzionamento del sistema economico e alle prescrizioni di politica economica. Mi rendo conto che per uno studente del primo anno non deve essere semplice seguire un corso del genere, ma si tratta di una scelta sulla modalità di insegnamento che caratterizza l’intero percorso di studi economici qui a Roma Tre. Superate le difficoltà iniziali, credo che lo studente riesca ad acquisire una consapevolezza e una capacità di analisi che gli saranno utili tanto nello studio che nella successiva attività lavorativa.

Fuori dalla sua università ritiene che la crisi economica scoppiata nel 2007/2008 abbia contribuito a valorizzare maggiormente i punti di vista eterodossi nel dibattito scientifico e nella didattica dell’economia?

È un po’ difficile da dire, perché i livelli del dibattito sono tanti. Partiamo da quello scientifico. Nelle maggiori pubblicazioni che animano la discussione scientifica e accademica, all’interno di quello che viene definito il “mainstream”, possiamo individuare una distinzione: semplificando, il campo si divide fra “monetaristi”e “nuovi keynesiani”. I primi sono sostanzialmente contrari all’intervento dell’autorità pubblica nel sistema economico sia tramite politiche fiscali sia attraverso politiche monetarie: il mercato va lasciato libero di operare sempre. I nuovo-keynesiani hanno una visione più modulata: nel breve periodo ritengono che questo intervento possa rendersi necessario ed opportuno, specialmente in una fase di recessione. Entrambe le scuole però convergono sull’idea che nel lungo periodo il sistema di mercato tende all’efficienza e al pieno impiego purché ci sia flessibilità nel mercato del lavoro.

La crisi sembra aver messo un po’ nell’angolo le posizioni monetariste più oltranziste…
Si, la crisi sembra aver ridato lustro alle posizioni nuovo-keynesiane, specialmente se pensiamo gli interpreti più radicali di questo paradigma come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.
Anche in Italia registriamo segnali interessanti che vanno nella direzione di una maggiore vivacità del dibattito. Ad esempio un importante economista bocconiano come Guido Tabellini in un suo recente articolo pubblicato sul Sole 24 Ore ha detto che in Europa bisogna superare il dogma della separazione tra politica monetaria e fiscale, cioè dell’assoluta indipendenza di una Banca centrale concentrata sull’unico obiettivo del controllo dell’inflazione. L’idea della separazione, del non coordinamento fra politiche fiscali e politiche monetarie è un’idea tipicamente monetarista. In questo senso la crisi economica e il dibattito che la sta accompagnando potrebbe aver contribuito a far emergere posizioni più duttili.
Fuori dal mainstream c’è però un terzo gruppo di economisti, quelli che possiamo considerare gli eterodossi in senso proprio e che si rifanno a idee keynesiane, sraffiane, kaleckiane, marxiste, ecc. Il minimo comune denominatore può essere individuato nella argomentazione che anche nel lungo periodo un’economia di mercato con prezzi flessibili e mercato del lavoro flessibile non presenta una tendenza al pieno impiego. Ecco, tutto questo filone di produzione teorica è ancora abbastanza emarginato nel dibattito. Eppure si tratta degli economisti che per primi hanno denunciato i rischi che stavamo correndo prima e durante la grande crisi scoppiata nel 2007-2008. Un anno e mezzo fa insieme a un centinaio di altri docenti e ricercatori universitari abbiamo reso pubblica una “Lettera degli economisti” (www.letteradeglieconomisti.it) che metteva in guardia circa gli effetti recessivi delle politiche di austerità varate in Europa. Purtroppo quell’analisi si è rivelata esatta.

I nuovi sistemi di valutazione della ricerca e dell’insegnamento universitario possono giocare un ruolo nel promuovere o ostacolare un maggiore pluralismo in questo ambito di discipline?
Negli ultimi anni in tutti i paesi industrializzati, inclusa l’Italia, è stata promossa una campagna – a volte esplicitamente dichiarata altre volte mascherata dietro un appello alla “meritocrazia” – tesa a limitare le possibilità di carriera e di ricerca a chi ha un’impostazione diversa da quella dominante. Se si riconoscono e si premiano solo le pubblicazioni su “certe riviste” e su “certi argomenti” è evidente che diventa difficile per chi non frequenta quelle riviste e quegli argomenti mettere in luce le qualità del proprio lavoro di ricerca, e avere quindi la possibilità di lavorare nelle università e di ottenere finanziamenti. E anche la didattica ha risentito molto di queste chiusure.

Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad una discussione molto accesa sul “governo dei tecnici”. Un’opinione molto diffusa è che per gestire questa fase di crisi ci vuole una persona di “riconosciuta competenza”. Non è detto però che tutte le persone competenti abbiano la medesima idea su come risolvere i problemi, come lei ha appena mostrato con questa breve rassegna sulle diverse posizioni in campo nell’attuale dibattito sulle politiche economiche… È evidente che la competenza è importante. Avere al potere degli incompetenti, di qualsiasi orientamento siano, è sempre dannoso. È chiaro tuttavia che la “competenza” del politico o del tecnico non è una categoria di per sé sufficiente a formulare un giudizio sul suo possibile operato. Per esempio le politiche economiche proposte alla Grecia avevano una giustificazione basata su teorie economiche elaborate da persone di “riconosciuta competenza”. Teorie secondo le quali contraendo la spesa pubblica e riducendo i disavanzi si liberano forze e risorse, sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta, in grado di risollevare l’economia. Tutto ciò è stato smentito dai fatti. E dal punto di vista della teoria economica eterodossa era ovvio che le cose sarebbero andate così. Per quanto riguarda l’Italia un governo di persone molto competenti che si attenessero rigidamente alle prescrizioni dell'ormai famosa lettera della Bce potrebbe essere molto pericoloso.

Ma anche se il nuovo governo adottasse le misure che lei ritiene più opportune in questa fase, quando davvero potrebbe essere padrone del destino del Paese? Intendo dire: davvero si decide a Roma il futuro dell’Italia e dell’Europa? Purtroppo no. Qualsiasi governo può fare poco in questo momento. Adesso l’Italia è stretta in una tenaglia mortale tra mercati finanziari che chiedono interessi molto alti sui titoli del debito pubblico, cosa che rende molto complicato rifinanziare il debito stesso, e la politica della Bce che non interviene sui mercati nello stesso modo in cui intervengono le altre Banche centrali come la Federal Reserve, la Bank of England o la Bank of Japan. Cioè la Bce non sostiene il valore dei titoli in modo da garantire bassi tassi di interesse. Presi in questa morsa rischiamo di avere margini di manovra estremamente limitati. E ovviamente non possiamo svalutare il cambio, che è una scelta dolorosa ma a volte utile.
Al netto di queste considerazioni io penso che bisognerebbe rischiare di fare politiche meno restrittive sul piano fiscale per evitare una recessione troppo forte in Italia. In ogni caso le politiche di austerità non servirebbero a placare “i mercati”.

Lei sostiene, sulla scorta di una certa impostazione teorica, che le politiche restrittive aggravano la crisi. In certe situazioni non è però irrilevante chi ha ragione “in teoria”? Mi spiego: se i mercati finanziari si muovono sulla base di altri modelli e vengono effettivamente rassicurati ad esempio da tagli draconiani della spesa pubblica, questa illusione non produce effetti reali di stabilizzazione?Questo però sembra ormai pensarlo solo la Angela Merkel! In realtà dagli stessi mercati – dalle relazioni delle agenzie di rating e perfino dalle interviste rilasciate dagli operatori agli organi di stampa – traspare che i guru della finanza sanno benissimo che le politiche fiscali restrittive tendono a produrre recessione e quindi a creare ulteriori problemi di entrate fiscali, di finanza pubblica e di sostenibilità del debito. E in qualche modo già scontano tutto ciò – è in parte per questo che la speculazione si muove anche sulle banche. Se davvero gli operatori finanziari fossero rassicurati dalle politiche restrittive non saremmo arrivati dove siamo ora. Guardiamo alla Spagna: continua a pagare interessi alti, sta andando in recessione e secondo me non appena la morsa sull’Italia dovesse temporaneamente allentarsi riprenderà l’attacco sulla Spagna o sul Portogallo. Benché si materializzino come attacchi sul debito pubblico queste ondate di sfiducia e speculazione affondano le proprie radici in fondamentali ragioni economiche, le quali hanno a che fare con il ruolo della Banca centrale europea, con l’assenza di sovranità monetaria da parte dei Paesi sotto attacco, con i problemi strutturali di economie caratterizzate da forti disavanzi con l’estero.

Ma la Banca centrale europea potrebbe interpretare il ruolo che lei le vorrebbe attribuire, cioè quello di intervenire come un vero prestatore di ultima istanza per sostenere i titoli del debito dei paesi sotto attacco? Non è vietato dai trattati dell'Unione europea? Nell’immediato potrebbe farlo se ci fosse un chiaro mandato politico giustificato dalla situazione di assoluta emergenza nella quale ci troviamo. In fondo ha senso che la Bce difenda la stabilità finanziaria e la stessa sopravvivenza dell’euro oltre che la stabilità dei prezzi. Quindi anche all’interno dei trattati così come sono oggi potrebbero esserci margini di intervento. E poi i trattati possono essere cambiati...

Da Micromega

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