Ad Harvard gli studenti contestano le lezioni di Macroeconomia e
scendono in strada con Occupy Wall Street. In Europa la crisi dei debiti
sovrani favorisce cambi di governo (Grecia e Italia) ma è ben lungi
dal venire superata. Siamo prossimi a un cambio di paradigma anche
all’interno della teoria economica? Ne parliamo con Antonella Stirati,
dell’Università di Roma Tre.
Intervista a Antonella Stirati di Emilio Carnevali
Agli
studenti di economia di tutto il mondo il nome di Gregory Mankiw è
estremamente familiare. È infatti l’autore di alcuni dei testi
universitari più diffusi. Anche nel nostro paese “il Mankiw” è fra i
manuali più adottati dai docenti di macroeconomia, forse secondo solo a
quello firmato dall’attuale capo economista del Fondo monetario
internazionale Olivier Blanchard (la cui edizione italiana è cofirmata
da Francesco Giavazzi e Alessia Amighini).
Eppure qualche settimana
fa gli studenti di Harvard, dove Mankiw insegna da molti anni, hanno
contestato il loro celebre e blasonato insegnate accusandolo di offrire
nelle sue lezioni una «specifica (e limitata) visione dell’economia», la
quale perpetua «assetti di disuguaglianza economica inefficienti e
problematici nella nostra società». «Uno studio accademico legittimo di
economia», si legge nella “Open letter to Greg Mankiw” pubblicata dalla Harvard Political Review,
«deve includere una discussione critica sia dei benefici che dei
difetti dei differenti modelli economici semplificati. Siccome il suo
corso non include fonti primarie e raramente adotta articoli di riviste
accademiche, ci ritroviamo con uno scarso accesso ad approcci economici
alternativi». Per manifestare con un gesto ancor più plateale questo
disagio un nutrito gruppo di studenti ha inoltre abbandonato la lezione
del 2 novembre unendosi alla marcia del movimento Occupy Wall Street in programma quel giorno a Boston.
Da
una delle più prestigiose – e costose – università americane, che
supera anche Yale per numero di ex studenti diventati presidenti degli
Stati Uniti, ci è giunto l’ennesimo segnale di come la Grande Crisi
scoppiata nel 2007/2008 sta scuotendo le basi non solo materiali del
patto sociale costruito in Occidente nell’ultimo trentennio. Partire dai
“fondamenti teorici” può essere un buon modo per analizzare con un
punto di vista originale anche le turbolente vicende di casa nostra, che
negli ultimi giorni hanno subito una improvvisa accelerazione con le
dimissioni di Silvio Berlusconi e l'incarico per la formazione del nuovo
governo conferito al professor Mario Monti. Ne abbiamo discusso con la
professoressa Antonella Stirati, docente di economia all’Università di
Roma Tre.
Professoressa Stirati, lei in queste
settimane sta tenendo il corso base di Macroeconomia. Anche lei è stata
contestata come è successo a Greg Mankiw, accusato di fornire una
«specific - and limited - view of economics»?
(Ride) No…Se
mai i miei studenti potrebbero voler protestare del contrario: sebbene
si tratti di un corso di macroeconomia del primo anno io cerco di
spiegare sin dall’inizio che esistono diverse impostazioni e, nei limiti
del possibile, di illustrare quali sono le differenze, le discriminanti
teoriche dalle quali conseguono diverse conclusioni rispetto al
funzionamento del sistema economico e alle prescrizioni di politica
economica. Mi rendo conto che per uno studente del primo anno non deve
essere semplice seguire un corso del genere, ma si tratta di una scelta
sulla modalità di insegnamento che caratterizza l’intero percorso di
studi economici qui a Roma Tre. Superate le difficoltà iniziali, credo
che lo studente riesca ad acquisire una consapevolezza e una capacità di
analisi che gli saranno utili tanto nello studio che nella successiva
attività lavorativa.
Fuori dalla sua università ritiene
che la crisi economica scoppiata nel 2007/2008 abbia contribuito a
valorizzare maggiormente i punti di vista eterodossi nel dibattito
scientifico e nella didattica dell’economia?
È un po’
difficile da dire, perché i livelli del dibattito sono tanti. Partiamo
da quello scientifico. Nelle maggiori pubblicazioni che animano la
discussione scientifica e accademica, all’interno di quello che viene
definito il “mainstream”, possiamo individuare una distinzione:
semplificando, il campo si divide fra “monetaristi”e “nuovi keynesiani”.
I primi sono sostanzialmente contrari all’intervento dell’autorità
pubblica nel sistema economico sia tramite politiche fiscali sia
attraverso politiche monetarie: il mercato va lasciato libero di operare
sempre. I nuovo-keynesiani hanno una visione più modulata: nel
breve periodo ritengono che questo intervento possa rendersi necessario
ed opportuno, specialmente in una fase di recessione. Entrambe le
scuole però convergono sull’idea che nel lungo periodo il sistema di
mercato tende all’efficienza e al pieno impiego purché ci sia
flessibilità nel mercato del lavoro.
La crisi sembra aver messo un po’ nell’angolo le posizioni monetariste più oltranziste…
Si,
la crisi sembra aver ridato lustro alle posizioni nuovo-keynesiane,
specialmente se pensiamo gli interpreti più radicali di questo paradigma
come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.
Anche in Italia registriamo
segnali interessanti che vanno nella direzione di una maggiore vivacità
del dibattito. Ad esempio un importante economista bocconiano come Guido
Tabellini in un suo recente articolo pubblicato sul Sole 24 Ore
ha detto che in Europa bisogna superare il dogma della separazione tra
politica monetaria e fiscale, cioè dell’assoluta indipendenza di una
Banca centrale concentrata sull’unico obiettivo del controllo
dell’inflazione. L’idea della separazione, del non coordinamento fra
politiche fiscali e politiche monetarie è un’idea tipicamente
monetarista. In questo senso la crisi economica e il dibattito che la
sta accompagnando potrebbe aver contribuito a far emergere posizioni più
duttili.
Fuori dal mainstream c’è però un terzo gruppo di
economisti, quelli che possiamo considerare gli eterodossi in senso
proprio e che si rifanno a idee keynesiane, sraffiane, kaleckiane,
marxiste, ecc. Il minimo comune denominatore può essere individuato
nella argomentazione che anche nel lungo periodo un’economia di mercato
con prezzi flessibili e mercato del lavoro flessibile non presenta una
tendenza al pieno impiego. Ecco, tutto questo filone di produzione
teorica è ancora abbastanza emarginato nel dibattito. Eppure si tratta
degli economisti che per primi hanno denunciato i rischi che stavamo
correndo prima e durante la grande crisi scoppiata nel 2007-2008. Un
anno e mezzo fa insieme a un centinaio di altri docenti e ricercatori
universitari abbiamo reso pubblica una “Lettera degli economisti”
(www.letteradeglieconomisti.it) che metteva in guardia circa gli effetti
recessivi delle politiche di austerità varate in Europa. Purtroppo
quell’analisi si è rivelata esatta.
I nuovi sistemi di
valutazione della ricerca e dell’insegnamento universitario possono
giocare un ruolo nel promuovere o ostacolare un maggiore pluralismo in
questo ambito di discipline?
Negli ultimi anni in tutti i
paesi industrializzati, inclusa l’Italia, è stata promossa una campagna –
a volte esplicitamente dichiarata altre volte mascherata dietro un
appello alla “meritocrazia” – tesa a limitare le possibilità di carriera
e di ricerca a chi ha un’impostazione diversa da quella dominante. Se
si riconoscono e si premiano solo le pubblicazioni su “certe riviste” e
su “certi argomenti” è evidente che diventa difficile per chi non
frequenta quelle riviste e quegli argomenti mettere in luce le qualità
del proprio lavoro di ricerca, e avere quindi la possibilità di lavorare
nelle università e di ottenere finanziamenti. E anche la didattica ha
risentito molto di queste chiusure.
Negli ultimi giorni
abbiamo assistito ad una discussione molto accesa sul “governo dei
tecnici”. Un’opinione molto diffusa è che per gestire questa fase di
crisi ci vuole una persona di “riconosciuta competenza”. Non è detto
però che tutte le persone competenti abbiano la medesima idea su come
risolvere i problemi, come lei ha appena mostrato con questa breve
rassegna sulle diverse posizioni in campo nell’attuale dibattito sulle
politiche economiche… È evidente che la competenza è
importante. Avere al potere degli incompetenti, di qualsiasi
orientamento siano, è sempre dannoso. È chiaro tuttavia che la
“competenza” del politico o del tecnico non è una categoria di per sé
sufficiente a formulare un giudizio sul suo possibile operato. Per
esempio le politiche economiche proposte alla Grecia avevano una
giustificazione basata su teorie economiche elaborate da persone di
“riconosciuta competenza”. Teorie secondo le quali contraendo la spesa
pubblica e riducendo i disavanzi si liberano forze e risorse, sia dal
lato della domanda sia dal lato dell’offerta, in grado di risollevare
l’economia. Tutto ciò è stato smentito dai fatti. E dal punto di vista
della teoria economica eterodossa era ovvio che le cose sarebbero andate
così. Per quanto riguarda l’Italia un governo di persone molto
competenti che si attenessero rigidamente alle prescrizioni dell'ormai
famosa lettera della Bce potrebbe essere molto pericoloso.
Ma
anche se il nuovo governo adottasse le misure che lei ritiene più
opportune in questa fase, quando davvero potrebbe essere padrone del
destino del Paese? Intendo dire: davvero si decide a Roma il futuro
dell’Italia e dell’Europa? Purtroppo no. Qualsiasi governo
può fare poco in questo momento. Adesso l’Italia è stretta in una
tenaglia mortale tra mercati finanziari che chiedono interessi molto
alti sui titoli del debito pubblico, cosa che rende molto complicato
rifinanziare il debito stesso, e la politica della Bce che non
interviene sui mercati nello stesso modo in cui intervengono le altre
Banche centrali come la Federal Reserve, la Bank of England o la Bank of
Japan. Cioè la Bce non sostiene il valore dei titoli in modo da
garantire bassi tassi di interesse. Presi in questa morsa rischiamo di
avere margini di manovra estremamente limitati. E ovviamente non
possiamo svalutare il cambio, che è una scelta dolorosa ma a volte
utile.
Al netto di queste considerazioni io penso che bisognerebbe
rischiare di fare politiche meno restrittive sul piano fiscale per
evitare una recessione troppo forte in Italia. In ogni caso le politiche
di austerità non servirebbero a placare “i mercati”.
Lei
sostiene, sulla scorta di una certa impostazione teorica, che le
politiche restrittive aggravano la crisi. In certe situazioni non è però
irrilevante chi ha ragione “in teoria”? Mi spiego: se i mercati
finanziari si muovono sulla base di altri modelli e vengono
effettivamente rassicurati ad esempio da tagli draconiani della spesa
pubblica, questa illusione non produce effetti reali di stabilizzazione?Questo
però sembra ormai pensarlo solo la Angela Merkel! In realtà dagli
stessi mercati – dalle relazioni delle agenzie di rating e perfino dalle
interviste rilasciate dagli operatori agli organi di stampa – traspare
che i guru della finanza sanno benissimo che le politiche fiscali
restrittive tendono a produrre recessione e quindi a creare ulteriori
problemi di entrate fiscali, di finanza pubblica e di sostenibilità del
debito. E in qualche modo già scontano tutto ciò – è in parte per questo
che la speculazione si muove anche sulle banche. Se davvero gli
operatori finanziari fossero rassicurati dalle politiche restrittive non
saremmo arrivati dove siamo ora. Guardiamo alla Spagna: continua a
pagare interessi alti, sta andando in recessione e secondo me non appena
la morsa sull’Italia dovesse temporaneamente allentarsi riprenderà
l’attacco sulla Spagna o sul Portogallo. Benché si materializzino come
attacchi sul debito pubblico queste ondate di sfiducia e speculazione
affondano le proprie radici in fondamentali ragioni economiche, le quali
hanno a che fare con il ruolo della Banca centrale europea, con
l’assenza di sovranità monetaria da parte dei Paesi sotto attacco, con i
problemi strutturali di economie caratterizzate da forti disavanzi con
l’estero.
Ma la Banca centrale europea potrebbe
interpretare il ruolo che lei le vorrebbe attribuire, cioè quello di
intervenire come un vero prestatore di ultima istanza per sostenere i
titoli del debito dei paesi sotto attacco? Non è vietato dai trattati
dell'Unione europea? Nell’immediato potrebbe farlo se ci
fosse un chiaro mandato politico giustificato dalla situazione di
assoluta emergenza nella quale ci troviamo. In fondo ha senso che la Bce
difenda la stabilità finanziaria e la stessa sopravvivenza dell’euro
oltre che la stabilità dei prezzi. Quindi anche all’interno dei trattati
così come sono oggi potrebbero esserci margini di intervento. E poi i
trattati possono essere cambiati...
Da Micromega
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