Cercando di capire la violenza di Roma
Di Gennaro Carotenuto
Dopo mesi di dibattito sul perché gli italiani non si indignassero, un gruppo sparuto, ma comunque di parecchie centinaia di persone, e non del tutto alieno a spezzoni del movimento, come alla maggioranza di noi piacerebbe che invece fosse stato, ha cancellato con una violenza insensata la bellezza e la creatività di centinaia di migliaia di pacifici partecipanti alla manifestazione di Roma. Il Viminale ci ha messo del suo per favorire e reprimere solo apparentemente una violenza che aiuta il governo ad uscire per un attimo dall’angolo e delegittima le ragioni di chi critica l’ordine vigente. Ma non tutto è così semplice.
Che la violenza, con o senza demonizzazione annessa, danneggi qualunque movimento, dovrebbe essere patrimonio comune. Che i governi, in particolare un governo alla frutta come quello presieduto da Silvio Berlusconi, abbia da guadagnare dal fallimento della grande e bella manifestazione pacifica di oggi a Roma, trasformatasi nel peggior episodio di guerriglia urbana dal G8 di Genova ad oggi, è altrettanto solare.
Allo stesso modo, adesso, castigata la parte pacifica del movimento, resta una linea di demarcazione tra la violenza dei pochi tra i tanti esclusi dal modello e la necessità per gli altri di dissociarsi, difendersi da stucchevoli accuse, rifluire spaventati oppure farsi carico di un’eventuale radicalizzazione di un movimento i caratteri spontaneisti del quale offrono spazio a più di una preoccupazione. Per mettere in prospettiva i fatti di sabato è possibile provare una serie di osservazioni parziali:
1) la rabbia è davvero tanta, tanta come non ce n’era in giro da decenni e l’idea borghese per la quale il male di vivere debba poi magicamente trasformarsi in pacifica, festosa espressione di… disappunto lascia il tempo che trova.
2) Oltre la rabbia c’è oramai in Italia un diffuso mondo lumpen in cerca di sé, attratto dai movimenti ma immerso in un disagio sociale vero (poca scuola, poco lavoro, spesso border line con crimine e droghe), che fa mancare l’alfabeto politico delle generazioni passate, la geometria della lotta di classe di una volta, la coscienza della storia del venire da lontano e andar lontano. Eppure, per la sinistra che si considera "società civile" la vera sfida è avere a che fare con questo mondo.
3) Tanti ragazzi sanno solo che per loro… "no future", come cantavano i Sex Pistols nel ’77. Il ’77 appunto. Senza speranza, senza un progetto, senza politica, abbiamo di fronte un nuovo nichilista ’77. Roma come Londra come la banlieu parigina con la violenza nuda, volgare, stridente dell’aggredito a fronteggiare quella asettica, scientifica, chirurgica dell’aggressore.
4) Roma è la città di Gianni Alemanno e Casa Pound è oramai una massa di manovra che tenta un continuo entrismo insinuando parole d’ordine apparentemente affini tanto nei movimenti di sinistra come nelle periferie urbane.
5) Roma ha la storia che ha anche nell’estrema sinistra. Nei movimenti della capitale c’è spesso una mentalità da ultras calcistici che considera le manifestazioni come un’occasione d’oro per menare le mani e dimostrare di esistere. Dai video si percepisce questa commistione tra gruppi più organizzati di violenti vestiti di scuro, i black bloc, con armi improprie, mazzette, diretti contro i beni materiali. Ma ci sono anche dei giovanissimi a contorno, sempre con i caschi ma improvvisati, cani sciolti violenti più o meno per caso che sfogano la loro rabbia contro i simboli della polizia.
6) Non è un caso che le violenze siano avvenute lontano dalla FIOM, lontano dalla CGIL, lontano da quella sinistra organizzata che ha sfilato pacificamente. Senza nostalgie per i servizi d’ordine di una volta, comunque la sinistra che si riconosce come tale, come parte di un movimento organizzato rifiutando l’atomizzazione sociale, la ricerca di una sterile apoliticità, può più facilmente fronteggiare emergenze come quella di oggi.
7) Infatti gli incidenti hanno violato quella Piazza San Giovanni dove stavano i cosiddetti indignati puri, quelli che hanno come riferimento la Puerta del Sol madrilena e si considerano (qualunque cosa voglia dire) “apolitici”. Questi sono innanzitutto vittime degli incidenti di oggi ma se vogliono dare un seguito alla loro indignazione, devono decidere cosa vogliono fare da grandi. Non bastano una settimana o un mese in tenda al Circomassimo e un bel sito in flash per cambiare il mondo.
8) La storia del Viminale è una storia disdicevole. Mille volte ha usato, causato, provocato episodi di violenza per debilitare o demonizzare l’opposizione al governo di turno. Non c’è bisogno dell’infiltrazione materiale di provocatori all’interno di un movimento disorganizzato (chi diavolo convocava oggi?) per ottenere obbiettivi stabilizzanti per il governo e destabilizzanti per il movimento.
9) Come sempre in questi casi girano in Rete mille denunce. Anche spurgandole delle leggende metropolitane restano dubbi, da quelli del SILP per il quale alle 23 di venerdì ancora non c’erano ordini di servizio, alla dinamica di alcuni episodi di violenza -come il rogo del furgone- stranamente avvenuti col favore di telecamera, al fatto che la polizia ancora una volta ha evitato di identificare gli incappucciati preferendo la via del lacrimogeno che da sempre colpisce il giusto per il peccatore. E’ vero o no che alle 23 c’erano appena una dozzina di arresti o fermi?
10) La violenza di oggi non cancella né le ragioni né la forza di questo movimento ma ne danneggia irrimediabilmente l’accesso al dibattito pubblico dei prossimi mesi e ne limita le possibilità d’espansione. È esattamente quello che successe a Genova 10 anni fa.
In conclusione è evidente che gli scontri abbiano impedito l’installazione di un presidio permanente al Colosseo o ai Fori imperiali che si sarebbe trasformato in una spina nel fianco sia per il governo che per la sinistra parlamentare delegittimata dall’esistenza di un movimento forte. Ma dopo di ieri è chiaro che la scorciatoia di un presidio, l’occupazione di una scuola o un’università, i 140 caratteri di twitter servano a molte cose ma non sostituiscono il lavoro sociale quotidiano, il dialogo con i dannati delle periferie, spesso così disperati da farsi male e far male con la violenza di sabato a Roma. Altrimenti l’indignazione diventa solitaria, autistica, di classe [media]. Le classi dirigenti hanno tradito quei giovani ben prima di tradire le classi medie, come è sicuramente avvenuto ma successivamente. Molti tra quelli che erano in strada a Roma oggi dicono: "i violenti non mi rappresentano". Hanno ragione, ma senza prestare ascolto costante alla voce dei diseredati, per quanto stridente possa sembrare rispetto alla propria, non potremo controllare né spegnere l’incendio.
Di Maso Notarianni
Infiltrati? Cattiva gestione dell'ordine pubblico? Tutta colpa di pochi deficienti? Come ogni day after, il dibattito è aperto
Come ogni mattina dopo che si rispetti, è aperto il dibattito: chi ha provocato il macello di Roma? Di chi è la colpa?
Lasciamo stare i commenti grevi e strumentali, che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ma tra chi c'era o ci sarebbe voluto essere si discute. Come si discusse a Genova dieci anni fa.
Tutta colpa di gruppetti di dementi armati di bastoni e coperti da caschi e passamontagna? Tutta colpa del cosiddetto metodo Cossiga? "Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri", disse il Presidente.
Una (mal)sana via di mezzo: infiltrati c'erano di sicuro. in ogni Centro sociale, in ogni gruppetto che ci rispetti ci sono almeno un poliziotto e un carabiniere. Più spesso anche un finanziere e un appartenente ai Servizi. E' così da sempre. E da sempre questi servono per controllare quel che accade (e fin qui va bene) ma anche (e qui va meno bene) per far scoppiare scintille e a volte, come la storia ci ha insegnato, anche bombe. E poi, a riprova del fatto che qualcuno questa tensione la volesse far salire a tutti i costi c'è il fatto che come era succeso a Genova, anche ieri c'erano gruppi di "tifosi", ovvero gruppi di violenti puri. E chissà perché c'erano.
Dopo di che, qualche infiltrato da solo non basta. La provocazione per attecchire deve aver terreno fertile. E terreno fertile in questo periodo ce n'è quanto si vuole. Pure troppo. Del resto, se in tutto il mondo si è consapevoli dei limiti della cosiddetta democrazia rappresentativa occidentale (questo dicono gli indignados, ovunque), come potrebbe essere diverso qui, dove la democrazia rappresentativa rappresenta ogni giorno solo il suo più clamoroso fallimento in ogni angolo delle istituzioni e da qualsiasi lato si provi a guardare i vari emicicli? A differenza del resto del mondo, in Italia c'è questo. E c'è la disperazione di poter cambiare le cose derivata da, diciamocelo, 65 anni di immobilismo politico. Per questo in molti si sentono consapevolmente, volontariamente, e in quache modo anche giustamente fuori della democrazia.
E il rimedio non sta nel servizio d'ordine, che qualche vecchietto come me invoca. Il rimedio, se c'è, sta nel riuscire a sovvertire lo stato. Questo stato di cose presenti che nel nostro Paese ha fatto del cercare nell'illegalità e nella furbizia il rimedio di ogni problema, individuale e collettivo.
http://it.peacereporter.net/articolo/31034/Una+(mal)sana+via+di+mezzo
Teppismo e rivoluzioni
Di Amedeo Ricucci
Non l’ha scritto nessuno e non esistono studi al riguardo ma posso assicurarvi – perchè me l’hanno raccontato in tanti, sul posto - che le cosiddette“primavere arabe”, in Tunisia, Egitto e non solo, sono state alimentate soprattutto dai giovani delle tifoserie calcistiche organizzate. I quali erano gli unici abituati da anni a “confrontarsi”con le forze dell’ordine, tutte le domeniche negli stadi, ed avevano inoltre maturato un antagonismo radicale nei confronti del Potere e dei loro rappresentanti. Sono stati loro ad avere il coraggio che è mancato ai loro padri. Il coraggio di re BASTA. E sono stati loro a scendere nelle piazze, a non indietreggiare di fronte alle cariche della polizia, ad essere iconoclasti, ironici e decisi ad andare fino in fondo, come insegna la legge degli stadi, in tutto il mondo. Molti amici arabi mi hanno confessato di essere stati trascinati in piazza dai loro figli e dalla loro mentalità da ultras, che prima detestavano e oggi invece apprezzano, o quantomeno giustificano, perchè oggi finalmente riconoscono ai loro figli il merito di non aver avuto la pazienza di sopportare e di subire per tutta la vita. Così sono stati cacciati, a calci in culo, Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto. E così finiranno altri dittatori.
Un meccanismo analogo si era instaurato ai tempi delle ultime guerre balcaniche, quando gli odi etnici maturati alla fine degli anni ’80 trovarono proprio negli stadi una terribile cassa di risonanza. Nelle “curve” vennero reclutati molti cetnici serbi e ustascia croati. E la mentalità da stadio fu assai importante nella (ri)costruzione delle identità nazionali, forgiata nell’odio per l’altro e nella celebrazione dei propri miti storici. Le guerre in ex-Iugoslavia vennero alimentate dalle “Curve”. E senza gli ultras non sarebbero sopravvissuti nè il mito diArkan nè il consenso di Milosevic, così quello diTudjman e degli altri leader balcanici dell’epoca post-titoista.
Qui da noi, in Occidente, sta capitando qualcosa di simile. Vedo infatti molti ultras delle nostre curve fra idesperados che periodicamente mettono a ferro e fuoco le nostre città, anche in occasione di manifestazioni politiche. E’ la jacquerie che fa da contorno ai nuovi movimenti antagonisti, da Seattle in poi. E’ la violenza per la violenza, gratuita ed anti-stato, che crea identità di gruppo più che politica. Tutta un’altra maniera di stare nelle piazze, che solo a parole si rifà alla violenza politica degli anni 70, senza mai eguagliarne le capacità militari e puntando solo alla devastazione. Ma forse è un fenomeno più da studiare che da criminalizzare o snobbare.
Pragmatismo e nonviolenza 2011
Di Ettore Macchieraldo
Dopo la grande manifestazione nazionale a Roma del 15 ottobre – vissuta da centinaia di migliaia di attivisti in modi nonviolenti, ma vissuta nei media solo con la cifra della violenza usata da una minoranza – ci sentiamo di ripubblicare questo articolo scritto da Ettore Macchieraldo a luglio 2011 dopo gli scontri in Val di Susa. È ancora attuale, nel cogliere il limite che immancabilmente raggiungono i nuovi movimenti una volta che sono chiamati a un salto di capacità strategica e comunicativa. La forma “manifestazione nazionale” è sempre più problematica. Sarà necessario concentrare il movimento contro le banche su due o tre proposte e avviare la mobilitazione, ma diffusa sul territorio. Solo così potremo creare consenso e aggregare tutti coloro che pagano e pagheranno la Grande Crisi.
I recenti fatti accaduti in Val Susa, lo sgombero del presidio No Tav, il tentativo di riprendersi il cantiere e gli stessi lacrimogeni tossici lanciati ad altezza d’uomo ci impongono una riflessione attenta sulle forme di lotta e di formazione del consenso. E ce lo impongono ancora di più ora che si concretizza questa indignazione a lungo sopita. “Personalmente il mio rifiuto alla violenza e alla uccisione si pone entro un disegno rivolto contro lo sfruttamento, la violenza e l’uccisione in tutte le loro forme, e richiede quindi una distinzione politica. Non accettare la tragicità inerente all’azione o al consenso all’altrui azione vuol dire dare aiuto ai Grandi Assassini, al sistema dell’assassinio organizzato che è la nostra società. Non posso mettere sullo stesso piano la violenza reazionaria e la violenza rivoluzionaria.” Così scrisse un intellettuale dello scorso secolo, Franco Fortini, in una lettera ad Aldo Capitini, il primo pensatore ed educatore alla nonviolenza in Italia.
Era il 1950, molto molto tempo fa.
Rimango legato a quella distinzione: non metto sullo stesso piano le due violenze.
Ciò nonostante non posso esimermi dall’esercitare una critica radicale a chi ha pensato di poter conquistare vantaggi alla causa dei No Tav della Val Susa riproponendo improvvisate guerriglie di sassi e bastoni contro un esercito di militari, preparati e attrezzati e gestiti strategicamente dalle centrali di polizia.
Se l’intenzione era quella di riconquistare il cantiere, ci si sarebbe dovuti organizzare meglio e, soprattutto, avere il consenso non solo della popolazione locale, ma direi di quella italiana (e tra loro almeno di una parte di quelli in divisa).
Probabilmente vale invece l’effetto notizia di cui scrive molto bene Gigi Roggero:
“Come le imprese del capitalismo cognitivo, così il Partito di Repubblica (d’ora in avanti PdR) non pretende di rappresentare, a monte, soggetti o blocchi sociali definiti: agisce invece a valle, catturando passioni e comportamenti, interpretandoli per produrre opinione pubblica e darne dunque, artificialmente, forma organizzata. Lo abbiamo visto con il movimento studentesco e universitario in autunno, disincarnato e astratto nell’icona del bravo giovane di XL, che ama i libri e la Cultura, indignato con Berlusconi ma non con il sistema di cui é parte integrante, tifoso della costituzione formale e non certo protagonista sovversivo della costituzione materiale, difensore del pubblico e perciò estraneo al comune, un po’ ribelle anagraficamente ma mai rivoluzionario. E poi sono venute le “donne”, ridotte a categoria sociologica e morale che identifica tutte coloro che se la prendono indistintamente con le corrotte e i corruttori, con le nipoti di Mubarak e il bunga bunga, e non certo con i rapporti di sfruttamento e precarizzazione in cui tutto ciò avviene. Ancora, i referendum: ignorati dal PdR fino alle elezioni amministrative, sono diventati nell’ultimo mese oggetto di una frenetica mobilitazione all’insegna del “vento che cambia”.
Poco conta, dunque, il contenuto specifico: il problema della forma-PdR é usare i movimenti sociali per accumulare opinione pubblica.”
E questo il terreno di battaglia: quello della comunicazione e della formazione d’opinione. Ed è vero che esiste un PdR, che conduce il potenziale dei movimenti nel recinto dell’impotenza. E lo fa appropriandosi dei contenuti più superficiali e mai concentrandosi sulle cause.
E allora, per far breccia in questo sistema, è necessaria la pantomima della violenza rivoluzionaria?
Soprattutto la riteniamo necessaria in assenza di una capacità di strategia e quindi di autonomia nella comunicazione da parte dei movimenti?
Io credo di no.
Penso sia di gran lunga più intelligente, anche per chi come me proviene da altre formazioni e che non può prescindere dalla difesa della propria incolumità fisica, utilizzare le tecniche della nonviolenza. O almeno, come ci suggerisce Nanni Salio, di “seguire la nonviolenza in termini pragmatici”.
C’è una grande necessità di esprimere l’indignazione crescente per le condizioni materiali e la qualità di vita che stanno peggiorando, ma c’è altrettanta necessità di un ampio e inedito consenso verso le forme di lotta e di auto organizzazione che si stanno esprimendo.
Non riduciamo tutto al teatrino spettacolare che i vari PdR ci chiedono di inscenare.
Doveva finire con qualche comizio...
In Italia la giornata del #15 ottobre ci consegna una realtà che mentre scriviamo viene descritta fotogramma per fotogramma dai tg e dai siti informativi, come il giorno in cui un manipolo di teppisti si é impossessato di una giusta causa ed ha rovinato tutto.
Più o meno le stesse parole di Mario Draghi, e quelle di Bersani che si spinge più in là, chiedendo a Maroni di riferire in parlamento nei prossimi giorni perché, come per il 14 dicembre dello scorso anno, si ha paura che i ragazzi colorati con le tende o avevano al loro interno qualche infiltrato di Kossiga memoria, o che le forze dell'ordine abbiano "lasciato fare" il manipolo di teppisti apposta.
La realtà ancora una volta è un' altra e va ben al di là di queste considerazioni e di quelle che iniziano a circolare tra il movimento.
Al 15 ottobre ci si è arrivati in una situazione assurda, dove gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni, avevano desistito da tempo di sfilare verso i palazzi del potere romano, che era l'unica cosa incisiva in una giornata del genere. Le iniziative dei giorni scorsi volevano smorzare e incanalare una rabbia diffusa e irrapresentabile che oggi si è manifestata in tutta la sua espressione.
Può anche essere vero che all'inizio la giornata avesse preso una piega difficile da spiegare (ma più comprensibile di altre volte se possiamo dire) con l'attacco a banche, Suv e compro oro, ma poi quello che si è visto è stato tutt'altro che qualche gruppo di esagitati, infiltrati, carabinieri o fascisti che dir si voglia nei social network.
Si è visto un corteo di giovani, per lo più giovani, non rappresentati da nessuno neanche all'interno del movimento, che in quel "Que se ne vayan todos", si sono riconosciuti appieno.
Giovani studenti, precari o disoccupati che si sono portati anche la maschera antigas nello zaino, perché pensavano di partecipare ad una giornata di riscossa, un po' come per il 14 dicembre dell'anno scorso, dove nonostante tutti i calcoli degli organizzatori, il corteo straripò, fuori dai recinti e dalle mediazioni.
Diciamola tutta, se c'era un paese che doveva trasformare l'indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l'Italia, che vive un presente veramente penoso.
La giornata di oggi, piazza San Giovanni nella fattispecie, si è trasformata in ore di resistenza di massa alle forze dell'ordine, chiamate a respingere una rabbia sacrosanta verso un presente di austerity. Magari non è comprensibilissimo ai più, ma le ore di resistenza romana odierna hanno detto chiaro e tondo che al debito, ai sacrifici, alla casta, all'austerity a senso unico, che ribellarsi è qualcosa che può unire, e che può succedere.
Oggi poteva solo succedere qualcosa in più dei piani prestabiliti, era normale, era nell'aria, spiace che ci sia chi non lo ha voluto vedere e si è voluto coccolare il suo orticello fatto di qualche poltroncina con Sel alle prossime elezioni.
Spiace la rinuncia degli organizzatori a puntare dritta verso i palazzi del potere, perché questo ha lasciato di fatto mano libera alla spontaneità, che non essendo indirizzata, ha consumato, dall'inizio, passo per passo, l'attacco a tutto ciò che è considerato simbolo del sistema di iniquità.
Era destino, ed era giusto, siamo nell'Italia dei Berlusconi e dei ceti politici sempre verdi.
Doveva finire con qualche comizio in piazza San Giovanni, è finita con ore di resistenza...
Que se ne vayan todos (ma proprio todos).
Una nuova epoca
Di Valentino Parlato
Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d'epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un'inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.
A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.
La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell'Iri, fondamentale nell'economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all'inizio di una nuova epoca.
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/10/articolo/5543/
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