A cavallo tra il 2010 e il 2011 le rivolte si sono moltiplicate in ogni angolo del pianeta. Dalla crisi finanziaria europea ai rincari dei generi alimentari in India e Cina, si sono aperte profonde crepe all'interno del sistema globale, acutizzate dall'espolsione delle piazze arabe.
(Carta di Laura Canali tratta da Limes QS 1/2010 "L'Euro senza Europa" - Clicca sulla carta per ingrandirla)
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Su google map si può trovare una carta in cui sono segnalati i disordini, le manifestazioni, i rovesciamenti di governi già avvenuti o che si stanno verificando nel mondo (“Inflation riots and protests 2011”): vedere il “mappamondo” costellato di incendi ci restituisce la vera portata di quanto sta accadendo.
A cavallo tra il 2010 e il 2011 - quindi ben prima dell’esplosione della primavera araba - abbiamo assistito a un moltiplicarsi di rivolte in ogni angolo del pianeta: migliaia di persone hanno manifestato a Nuova Delhi contro il governo per i rincari dei generi alimentari; in Iraq contro la corruzione del governo Al-Maliki, contro la disoccupazione e la mancanza di servizi elementari; in Iran contro il regime degli ayatollah, ma anche per i salari non pagati.
Nella provincia cinese di Guizhou si sono registrati gravi disordini studenteschi dovuti al rincaro delle mense scolastiche. Siria e Giordania hanno aumentato (con risultati diversi) i sussidi sui generi alimentari per mantenere i prezzi artificialmente bassi. I greci hanno protestato in modo estremamente violento contro l'austerità; si sono rivoltati gli abitanti di Madison nel Wisconsin, così come gli “indignati” spagnoli e gli studenti inglesi contro i rincari delle tasse universitarie. In particolare in Gran Bretagna sono sempre di più cittadini, organizzati in un movimento di base, che occupano sedi di banche e di multinazionali per protestare contro quella che percepiscono come una sorta di evasione fiscale legalizzata di cui godono le imprese globali, mentre alla popolazione vengono imposti aggravi insopportabili.
Mutuando la famosa metafora di Toni Negri, ci troveremmo di fronte a un rifiuto viscerale contro il capitalismo globale: una “moltitudine molecolare” contro “l’impero globale”, con le masse protagoniste della crisi della democrazia e della sua radicale trasformazione nello strumento di una vera liberazione dell’umanità. Il fatto che la protesta si rivolga contro governi e regimi sarebbe la conseguenza del fatto che questi ultimi si sono messi in stato di virtuale bancarotta per aiutare le banche, invece che sostenere i cittadini colpiti dalla crisi provocata dalla finanza globale. L’intensità e la portata di questi fenomeni hanno colto per lo più impreparati la maggior parte degli osservatori; non che fossero mancati avvertimenti, anche autorevoli, ma non erano riusciti a superare il conformismo mediatico.
Già nel dicembre 2008, la Bank for international settlements (Bis) aveva messo in guardia contro ulteriori giganteschi salvataggi di banche, spiegando che tali operazioni stavano di fatto trasferendo i rischi dalle ricche entità private agli Stati, con il pericolo di trasformare la crisi finanziaria in una crisi sociale e politica: le Banche centrali, accollandosi i problemi degli istituti di credito in difficoltà a causa dei derivati e dei titoli tossici, hanno di fatto messo in pericolo i loro rispettivi paesi. Proprio l’aumento della massa monetaria emessa, in particolare da parte della Federal reserve e delle Banche centrali cinese e indiana, insieme alle operazioni speculative, sarebbe la causa primaria dei rincari dei generi alimentari a livello globale. Le popolazioni sono dunque strette tra i rincari da inflazione e le misure di austerità che i governi impongono per affrontare la crisi.
Nel febbraio 2009 Moody’s parlava di imminenti social unrest in vari paesi. E nel novembre del 2010 uno studio dell’Army war college avvertiva che le forze armate dovevano prepararsi ad affrontare «violent, strategic dislocation inside the United States», con «widespread civil violence» e «loss of functioning political and legal order», causati da «economic collapse».
Dennis Blair, il capo della National intelligence, dal canto suo ha parlato di «instabilità capaci di minacciare i regimi nei paesi in via di sviluppo», anche queste dovute alla «global economic crisis». Nel giugno 2010 Zbigniew Brzezinski ammoniva che: «ci saranno conflitti crescenti fra le classi, e se la gente è disoccupata, si potranno avere rivolte». E aggiungeva: «viviamo in un momento storico in cui l’umanità nel suo complesso è divenuta politicamente più cosciente, e politicamente attiva a un livello prima sconosciuto, e questa condizione provocherà grandi disordini internazionali». Queste posizioni sono ora riassunte e accolte nell’ultimo rapporto dell’Onu, in cui si afferma che le ricette del liberismo globale applicate in modo dogmatico finiscono appunto per produrre - recita testualmente The global social crisis - Report on the world social situation, 2011:
«Un'insurrezione sociale globale», di cui i governi devono tenere conto: «le politiche economiche attualmente applicate hanno effetti sulla sanità, l’istruzione e l’alimentazione, che penalizzano la crescita a lungo termine». I rincari degli alimentari e dei carburanti, in parte provocati dalla speculazione selvaggia, hanno aumentato il numero di affamati nel mondo, che nel 2009 erano un miliardo, e stanno ancora crescendo. Nel 2010 il numero dei disoccupati nel mondo è salito a 200 milioni, rimasti senza aiuti e assistenza. Per contrastare tutto ciò servirebbero «politiche socialmente inclusive» proprio per recuperare gli esclusi e i perdenti. Tutto ciò ha chiaramente subito una poderosa accelerazione dopo l’esplosione delle piazze arabe.
Un evento di fronte al quale si sono cristallizzate tre posizioni. Secondo la prima, espressa dall’autorevole analista di politica internazionale Robert D. Kaplan, lo scompaginamento del Medio Oriente sarebbe appena all’inizio: in Yemen, Giordania, Bahrein e Arabia Saudita le rivolte democratiche potrebbero rivelarsi nefaste per gli Usa. Si può criticare la monarchia saudita quanto si vuole, ma chi e cosa potrà sostituirla? Recare aiuto agli sciiti in Bahrein o agli oppositori del regime nello Yemen rischia di alienare alleati chiave: «Prospettive ben più incerte si profilano altrove nella regione, negli Stati che si ritroveranno sostanzialmente indeboliti non appena il guscio della tirannide si sarà sgretolato.
Al di là del caso contingente della Libia, nuove e cruciali prove si profilano in futuro. Gli Stati Uniti sono una democrazia, ma anche una potenza fondata su determinati rapporti di potere, la cui posizione globale si regge sul presupposto che il mondo resti così com’è». La sua conclusione è che «l’ordine è sempre preferibile al disordine. Ricordiamo cosa è accaduto in Iraq quando è caduto Saddam Hussein». Si starebbero quindi aprendo profonde crepe all’interno del sistema globale, che starebbe perdendo il controllo e l’influenza su ampie fette del mondo.
A questa visione apocalittica si contrappone quella di Fukuyama, secondo cui l’aspirazione delle masse in fermento sarebbe quello di aderire ai nostri valori: modernità, democrazia e libero mercato.
Gli fa eco Michael Leeden, affermando che ci troveremmo di fronte «a un’insurrezione globale che chiede più libertà e meno governo». Un’ulteriore posizione è quella di quanti vedono la primavera araba come qualcosa di analogo alle rivoluzione colorate nei paesi dell’Est. In particolare il giornalista Marcello Foa ha scritto che Obama, con altri metodi, combatterebbe la stessa guerra di Bush per esportare la democrazia. «Come si vincono le guerre nell’era della globalizzazione? Muovendo gli eserciti? Talvolta sì, ma il risultato non è sempre soddisfacente e i costi spesso risultano superiori ai benefici. Ne sa qualcosa George Bush, che nel 2001 si scagliò contro i talebani in Afghanistan e nel 2003 contro Saddam in Iraq. Siamo nel 2011, quei conflitti durano ancora e la vittoria finale non è assicurata. Se l’America avesse usato altri metodi, probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vite e molti miliardi di dollari, e avrebbe ottenuto risultati più concreti e duraturi. È la lezione che ha appreso Barack Obama, che in realtà sta combattendo la stessa guerra di Bush, nel senso che ne condivide le finalità strategiche.
Che cosa voleva George W? Esportare la democrazia e, soprattutto, sostituire in Medio Oriente regimi decadenti, retti da leader impopolari, con regimi più rispettabili e leader più affidabili. Pensateci bene: è esattamente quel che si propone Barack Obama in Egitto e Tunisia. A cambiare è il metodo». Quindi l’attuale inquilino della Casa Bianca starebbe optando per il proseguimento delle tecniche usate in Ucraina, Georgia e Serbia nella prima metà degli anni Duemila. «Ricordate la protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? E l’emozionante Rivoluzione arancione di Kiev? E quella rosa contro Shevardnadze?
Allora i media si emozionarono, esaltando la rivincita del popolo; oggi sappiamo - documenti alla mano - che quelle rivolte non furono affatto spontanee, ma preparate con cura e sapientemente attizzate da società private di pubbliche relazioni, che agivano per conto del Dipartimento di Stato. Washington aveva capito che, agendo con la dovuta cautela, la piazza poteva essere usata a proprio vantaggio. Lo stesso sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. Non limitatevi alle dichiarazioni ufficiali, alcune sono obbligate e rientrano in un gioco delle parti.
Chiedetevi, piuttosto... Chi ha deciso la rivolta prima a Tunisi e ora al Cairo? L’esercito, che si è rifiutato di sparare sulla folla, legittimando le richieste dei manifestanti. E a chi sono legati i vertici militari egiziani e tunisini? Saldamente agli Stati Uniti. Chi comanda ora al posto di Ben Ali? I generali, democratici, nelle intenzioni, ma pur sempre generali. (…) Tutto quadra. Oggi.
Domani, chissà; perché in Tunisia l’influenza dei fondamentalisti islamici è impalpabile, mentre in Egitto i Fratelli musulmani sono molto popolari e in passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi. Questo rende il finale più incerto, ma non cambia l’analisi complessiva». Proprio per condizionare questo finale di partita, il summit del G8 nella proustiana città di Deauville ha dato una chiara indicazione geopolitica. Il presidente francese Sarkozy ha infatti annunciato un gigantesco “piano Marshall” di aiuti finanziari ai paesi del Maghreb e delle “primavere arabe”, con un impegno di 20 miliardi di dollari, mentre altri 20 potrebbero arrivare dai paesi arabi del Golfo e dalle banche di sviluppo.
Da Limes
A cavallo tra il 2010 e il 2011 - quindi ben prima dell’esplosione della primavera araba - abbiamo assistito a un moltiplicarsi di rivolte in ogni angolo del pianeta: migliaia di persone hanno manifestato a Nuova Delhi contro il governo per i rincari dei generi alimentari; in Iraq contro la corruzione del governo Al-Maliki, contro la disoccupazione e la mancanza di servizi elementari; in Iran contro il regime degli ayatollah, ma anche per i salari non pagati.
Nella provincia cinese di Guizhou si sono registrati gravi disordini studenteschi dovuti al rincaro delle mense scolastiche. Siria e Giordania hanno aumentato (con risultati diversi) i sussidi sui generi alimentari per mantenere i prezzi artificialmente bassi. I greci hanno protestato in modo estremamente violento contro l'austerità; si sono rivoltati gli abitanti di Madison nel Wisconsin, così come gli “indignati” spagnoli e gli studenti inglesi contro i rincari delle tasse universitarie. In particolare in Gran Bretagna sono sempre di più cittadini, organizzati in un movimento di base, che occupano sedi di banche e di multinazionali per protestare contro quella che percepiscono come una sorta di evasione fiscale legalizzata di cui godono le imprese globali, mentre alla popolazione vengono imposti aggravi insopportabili.
Mutuando la famosa metafora di Toni Negri, ci troveremmo di fronte a un rifiuto viscerale contro il capitalismo globale: una “moltitudine molecolare” contro “l’impero globale”, con le masse protagoniste della crisi della democrazia e della sua radicale trasformazione nello strumento di una vera liberazione dell’umanità. Il fatto che la protesta si rivolga contro governi e regimi sarebbe la conseguenza del fatto che questi ultimi si sono messi in stato di virtuale bancarotta per aiutare le banche, invece che sostenere i cittadini colpiti dalla crisi provocata dalla finanza globale. L’intensità e la portata di questi fenomeni hanno colto per lo più impreparati la maggior parte degli osservatori; non che fossero mancati avvertimenti, anche autorevoli, ma non erano riusciti a superare il conformismo mediatico.
Già nel dicembre 2008, la Bank for international settlements (Bis) aveva messo in guardia contro ulteriori giganteschi salvataggi di banche, spiegando che tali operazioni stavano di fatto trasferendo i rischi dalle ricche entità private agli Stati, con il pericolo di trasformare la crisi finanziaria in una crisi sociale e politica: le Banche centrali, accollandosi i problemi degli istituti di credito in difficoltà a causa dei derivati e dei titoli tossici, hanno di fatto messo in pericolo i loro rispettivi paesi. Proprio l’aumento della massa monetaria emessa, in particolare da parte della Federal reserve e delle Banche centrali cinese e indiana, insieme alle operazioni speculative, sarebbe la causa primaria dei rincari dei generi alimentari a livello globale. Le popolazioni sono dunque strette tra i rincari da inflazione e le misure di austerità che i governi impongono per affrontare la crisi.
Nel febbraio 2009 Moody’s parlava di imminenti social unrest in vari paesi. E nel novembre del 2010 uno studio dell’Army war college avvertiva che le forze armate dovevano prepararsi ad affrontare «violent, strategic dislocation inside the United States», con «widespread civil violence» e «loss of functioning political and legal order», causati da «economic collapse».
Dennis Blair, il capo della National intelligence, dal canto suo ha parlato di «instabilità capaci di minacciare i regimi nei paesi in via di sviluppo», anche queste dovute alla «global economic crisis». Nel giugno 2010 Zbigniew Brzezinski ammoniva che: «ci saranno conflitti crescenti fra le classi, e se la gente è disoccupata, si potranno avere rivolte». E aggiungeva: «viviamo in un momento storico in cui l’umanità nel suo complesso è divenuta politicamente più cosciente, e politicamente attiva a un livello prima sconosciuto, e questa condizione provocherà grandi disordini internazionali». Queste posizioni sono ora riassunte e accolte nell’ultimo rapporto dell’Onu, in cui si afferma che le ricette del liberismo globale applicate in modo dogmatico finiscono appunto per produrre - recita testualmente The global social crisis - Report on the world social situation, 2011:
«Un'insurrezione sociale globale», di cui i governi devono tenere conto: «le politiche economiche attualmente applicate hanno effetti sulla sanità, l’istruzione e l’alimentazione, che penalizzano la crescita a lungo termine». I rincari degli alimentari e dei carburanti, in parte provocati dalla speculazione selvaggia, hanno aumentato il numero di affamati nel mondo, che nel 2009 erano un miliardo, e stanno ancora crescendo. Nel 2010 il numero dei disoccupati nel mondo è salito a 200 milioni, rimasti senza aiuti e assistenza. Per contrastare tutto ciò servirebbero «politiche socialmente inclusive» proprio per recuperare gli esclusi e i perdenti. Tutto ciò ha chiaramente subito una poderosa accelerazione dopo l’esplosione delle piazze arabe.
Un evento di fronte al quale si sono cristallizzate tre posizioni. Secondo la prima, espressa dall’autorevole analista di politica internazionale Robert D. Kaplan, lo scompaginamento del Medio Oriente sarebbe appena all’inizio: in Yemen, Giordania, Bahrein e Arabia Saudita le rivolte democratiche potrebbero rivelarsi nefaste per gli Usa. Si può criticare la monarchia saudita quanto si vuole, ma chi e cosa potrà sostituirla? Recare aiuto agli sciiti in Bahrein o agli oppositori del regime nello Yemen rischia di alienare alleati chiave: «Prospettive ben più incerte si profilano altrove nella regione, negli Stati che si ritroveranno sostanzialmente indeboliti non appena il guscio della tirannide si sarà sgretolato.
Al di là del caso contingente della Libia, nuove e cruciali prove si profilano in futuro. Gli Stati Uniti sono una democrazia, ma anche una potenza fondata su determinati rapporti di potere, la cui posizione globale si regge sul presupposto che il mondo resti così com’è». La sua conclusione è che «l’ordine è sempre preferibile al disordine. Ricordiamo cosa è accaduto in Iraq quando è caduto Saddam Hussein». Si starebbero quindi aprendo profonde crepe all’interno del sistema globale, che starebbe perdendo il controllo e l’influenza su ampie fette del mondo.
A questa visione apocalittica si contrappone quella di Fukuyama, secondo cui l’aspirazione delle masse in fermento sarebbe quello di aderire ai nostri valori: modernità, democrazia e libero mercato.
Gli fa eco Michael Leeden, affermando che ci troveremmo di fronte «a un’insurrezione globale che chiede più libertà e meno governo». Un’ulteriore posizione è quella di quanti vedono la primavera araba come qualcosa di analogo alle rivoluzione colorate nei paesi dell’Est. In particolare il giornalista Marcello Foa ha scritto che Obama, con altri metodi, combatterebbe la stessa guerra di Bush per esportare la democrazia. «Come si vincono le guerre nell’era della globalizzazione? Muovendo gli eserciti? Talvolta sì, ma il risultato non è sempre soddisfacente e i costi spesso risultano superiori ai benefici. Ne sa qualcosa George Bush, che nel 2001 si scagliò contro i talebani in Afghanistan e nel 2003 contro Saddam in Iraq. Siamo nel 2011, quei conflitti durano ancora e la vittoria finale non è assicurata. Se l’America avesse usato altri metodi, probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vite e molti miliardi di dollari, e avrebbe ottenuto risultati più concreti e duraturi. È la lezione che ha appreso Barack Obama, che in realtà sta combattendo la stessa guerra di Bush, nel senso che ne condivide le finalità strategiche.
Che cosa voleva George W? Esportare la democrazia e, soprattutto, sostituire in Medio Oriente regimi decadenti, retti da leader impopolari, con regimi più rispettabili e leader più affidabili. Pensateci bene: è esattamente quel che si propone Barack Obama in Egitto e Tunisia. A cambiare è il metodo». Quindi l’attuale inquilino della Casa Bianca starebbe optando per il proseguimento delle tecniche usate in Ucraina, Georgia e Serbia nella prima metà degli anni Duemila. «Ricordate la protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? E l’emozionante Rivoluzione arancione di Kiev? E quella rosa contro Shevardnadze?
Allora i media si emozionarono, esaltando la rivincita del popolo; oggi sappiamo - documenti alla mano - che quelle rivolte non furono affatto spontanee, ma preparate con cura e sapientemente attizzate da società private di pubbliche relazioni, che agivano per conto del Dipartimento di Stato. Washington aveva capito che, agendo con la dovuta cautela, la piazza poteva essere usata a proprio vantaggio. Lo stesso sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. Non limitatevi alle dichiarazioni ufficiali, alcune sono obbligate e rientrano in un gioco delle parti.
Chiedetevi, piuttosto... Chi ha deciso la rivolta prima a Tunisi e ora al Cairo? L’esercito, che si è rifiutato di sparare sulla folla, legittimando le richieste dei manifestanti. E a chi sono legati i vertici militari egiziani e tunisini? Saldamente agli Stati Uniti. Chi comanda ora al posto di Ben Ali? I generali, democratici, nelle intenzioni, ma pur sempre generali. (…) Tutto quadra. Oggi.
Domani, chissà; perché in Tunisia l’influenza dei fondamentalisti islamici è impalpabile, mentre in Egitto i Fratelli musulmani sono molto popolari e in passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi. Questo rende il finale più incerto, ma non cambia l’analisi complessiva». Proprio per condizionare questo finale di partita, il summit del G8 nella proustiana città di Deauville ha dato una chiara indicazione geopolitica. Il presidente francese Sarkozy ha infatti annunciato un gigantesco “piano Marshall” di aiuti finanziari ai paesi del Maghreb e delle “primavere arabe”, con un impegno di 20 miliardi di dollari, mentre altri 20 potrebbero arrivare dai paesi arabi del Golfo e dalle banche di sviluppo.
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