Fortress Europe: profughi del terrore, ora cosa sarà di loro?

ago 24, 2011 0 comments

profughi arrivati in Italia dalla Libia sono già una massa di 23.000 persone, per lo più non libici ma intrappolati dalla guerra o addirittura “deportati” dal regime di Gheddafi come ritorsione dopo l’attacco della Nato. Stivati nei centri di accoglienza, non hanno nessuna possibilità di uscire dalla clandestinità, né di essere rimpatriati a spese dell’Italia, perché sono troppi. Che fine faranno? E cosa accadrà, ora, con il crollo di Tripoli e il caos che potrebbe regnare in un paese svuotato, pieno di civili terrorizzati e miliziani armati fino ai denti? Domande che Gabriele Del Grande, giornalista indipendente e creatore di “Fortress Europe”, monitor-web della “tratta degli schiavi” nel Mediterraneo, si pone ormai da anni, seguendo da vicino le rotte della disperazione che portano, via mare, all’Europa.
«Il 2008 fu l’anno record degli sbarchi dalla Libia», ricorda Del Grande il 16 agosto. «A Lampedusa arrivarono 30.000 persone in dodici mesi». Poi fu la profughi africanivolta dei “respingimenti” nel 2009 e degli “sbarchi zero” l’anno successivo. Breve pausa, perché con l’esplosione della guerra in Libia le traversate sono riprese con la stessa intensità di prima, ma con la differenza che stavolta nei centri di accoglienza la tensione è alle stelle: «Maroni ha deciso che i profughisaranno espulsi. E da Bari a Crotone, da Trapani a Mineo, abbiamo assistito a proteste, rivolte, scontri e arresti». Fino a tre anni fa, l’emigrazione via mare era soprattutto un business, gestito da trafficanti d’uomini con la complicità della polizia. Ma il regime di Tripoli la incoraggiava, come strumento di pressione politica.
«Fino al 2008 arrivavano a Lampedusa soprattutto rifugiati politici eritrei e somali, che alle spalle si lasciavano guerre e dittature del Corno d’Africa», scrive “Fortress Europe”. «Viaggiavano insieme ad avventurieri nigeriani e maliani, camerunesi e ivoriani, egiziani e tunisini, che in Italia venivano a cercare fortuna e lavoro». Il business  delle traversate, dai 1.000 ai 2.000 euro a passeggero, era affidato a contrabbandieri libici, che con l’aiuto di intermediari di ogni nazionalità e con la connivenza della polizia locale corrotta, si garantivano un giro d’affari stimabile tra i 50 e i 100 milioni di euro l’anno, scrive Del Grande. «Ma non erano soltanto funzionari di polizia a chiudere un occhio. Era tutto il regime, Gheddafi in testa, a incoraggiare le partenze per alzare la posta in gioco sul tavolo del negoziato con l’Italia e Lampedusacon l’Unione europea, così ossessionate dalla questione sbarchi».
La svolta nel 2009, con il famigerato “trattato di amicizia italo-libico” che chiude di fatto la frontiera mediterranea, scoraggiando le partenze con «arresti mirati e ordini speciali impartiti a funzionari e capimafia». Gheddafi, scrive Del Grande, aveva ottenuto quello che voleva: un risarcimento per i crimini di guerra commessi dalle truppe italiane durante il colonialismo. «Un risultato che gli dava consenso interno e prestigio internazionale tra i leader delle ex colonie, per avere ottenuto ciò che nessun altro fino ad oggi è mai riuscito a ottenere. Una condanna formale e un versamento riparatorio. Per quanto simbolico: sì, perché 5 miliardi di dollari, da pagare in vent’anni, rappresentano una cifra irrisoria rispetto al giro d’affari tra Italia eLibia per l’estrazione di petrolio e gas naturali, la ricostruzione, e gli investimenti libici in banche e grandi imprese italiane».
Dunque, sbarchi azzerati nel 2010: ma poi è arrivata la guerra. «Il grande esodo è iniziato sin dai primi giorni», con la sanguinosa rivolta di Bengasi: gli africani, spaventati dal rischio di essere scambiati per mercenari, furono i primi a partire, «seguiti a ruota da tunisini ed egiziani, che rappresentano le più importanti comunità di stranieri nel paese». A seguire, «lavoratori di tutto il mondo, compresi migliaia di cinesi, pakistani e bangladeshi». L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni da allora monitora le frontiere terrestri libiche e ha calcolato che oltre 650.000 persone hanno lasciato il paese via terra, raggiungendo l’Egitto, il Sudan, il Ciad, il Niger, l’Algeria e la Tunisia. Dato parziale, che non tiene conto dei voli – quando il Berlusconi e Gheddafitraffico aereo funzionava ancora – e delle rotte dei clandestini.
A marzo i primi sbarchi, dopo la dura repressione del regime contro la popolazione che si era sollevata a Tripoli a febbraio. «Le condizioni sul terreno erano troppo difficili perché i contrabbandieri che fino a tre anni prima gestivano gli imbarchi potessero rimettersi al lavoro», dice Del Grande, ma poi è stato direttamente il Colonnello a ordinare che iniziassero «le deportazioni» in Italia, come ritorsione contro i bombardamenti Nato. «All’inizio il regime forniva soltanto un appoggio logistico», racconta “Fortress Europe”: gli espulsi venivano imbarcati su pescherecci nei porti di Tripoli, Janzur e Zuwara. «I prezzi della traversata erano in stagione di saldi: al massimo 500 euro a persona». E alle operazioni di carico «assistevano direttamente i militari di Gheddafi, coadiuvati dagli stessi intermediari appositamente rilasciati dal carcere».
I primi a partire, un migliaio di eritrei e somali. Poi tutti gli altri, lavoratori professionisti: carpentieri, gessisti, imbianchini, saldatori, tornitori, meccanici, elettricisti. «In una parola, la classe operaia della Libia del boom economico del post-embargo. Gente che all’Europa non aveva mai pensato, ma che sotto le bombe ha preso l’unica decisione sensata: andarsene prima che fosse troppo tardi», temendo il bagno di sangue al momento dell’ingresso dei “ribelli” nella capitale. Poi però le partenze per Lampedusa sono rallentate: «Di gente disposta a partire non ce n’era più, fondamentalmente perché Tripoli e la Libia tutta si erano svuotate». Per un periodo hanno continuato a partire quelli dei campi profughi in Tunisia, che dopo aver capito che l’Europa non avrebbe aperto alcun corridoio immigrata all'arrivo in Italiaumanitario per evacuarli, sono rientrati in Libia a proprio rischio e pericolo. «Allora il regime è corso ai ripari, e sono iniziate le partenze forzate».
“Fortess Europe” cita testimonianze raccolte sul campo: retate delle milizie di Gheddafi strada per strada, casa per casa, nei quartieri neri di Tripoli e delle poche altre città ancora controllate dal regime. «Caricati sui camion-container verso i porti e da lì costretti a imbarcarsi». Viaggio gratuito, “offerto” dal regime. Ma all’arrivo in Italia, nessun riconoscimento umanitario, nonostante la fuga – volontaria o coatta – da una guerra. «Ai tempi degli sbarchi nel 2008 – ricorda Gabriele Del Grande – tre persone su quattro chiedevano asilo politico e la metà otteneva una qualche forma di protezione internazionale. Oggi invece Maroni ha annunciato un cambio di strategia: i profughi della guerralibica saranno espulsi».
Con l’eccezione di somali ed eritrei, non espellibili per la situazione critica dei loro paesi (la Somalia in guerra civile da vent’anni, l’Eritrea sotto la morsa del regime totalitario di Afewerki, sostenuto dall’Italia), tutti gli altri stanno perlopiù ricevendo il diniego delle loro richieste d’asilo. «Il teorema è semplice», aggiunge Del Grande: i 23.000 profughi della guerra in Libia arrivati in Italia non sono libici, a parte un centinaio di persone, e dunque possono tornare nel loro paese. «Dal momento però che l’Italia non ha i mezzi, né economici né logistici, per rimpatriare un così grande numero di Gabriele Del Grandepersone in un così breve lasso di tempo, oltretutto senza la collaborazione delle ambasciate dei loro paesi, l’unica conseguenza di queste scelte sarà ancora una volta la produzione di clandestinità».
La “fabbrica” lavora a pieno regime: ogni giorno, se non fa ricorso, chi riceve il diniego si trasforma in un “clandestino”, costretto a vivere i prossimi anni senza poter lavorare, né affittare una casa, e senza neppure i mezzi per rientrare nel proprio paese. «Tempo qualche anno e li troveremo in mezzo alla strada, nei palazzi occupati delle nostre città, alle file delle mense della Caritas e nelle gabbie dei centri di identificazione e espulsione. Lavoratori professionisti, gente responsabile di se stessa e della propria famiglia, trasformati in soggetti emarginati, assistiti e braccati dalle forze dell’ordine». E pensare che solo quattro mesi fa, ad aprile, il governo aveva concesso un permesso umanitario semestrale a più di 14.000 tunisini. E ora cosa accadrà, una volta “liberata” Tripoli?

Da Libre

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