Di fronte ad una multiforme pratica della contenzione più manifesta ed evidente in alcuni piuttosto che in altri settori della società, sostenere che la libertà è terapeutica comincia ad essere veramente uno scherno per gli uomini. Molto di più per quelli che continuano a morire, corporalmente, tra le galere e reparti psichiatrici di questa libertà e per quelli che, non riuscendo a morire totalmente, nelle stesse Istituzioni della libertà vengono ridotte dolcemente, quasi senza accorgersene, ad una più che tremenda morte sociale.
Siamo lontani. Troppo lontani, non solo dalla libertà ma perfino dalla più labile fiammella della libertà. Potrebbe esserlo ma l’attuale Istituzione della Salute Mentale è lontana da ogni pur minima tensione verso la libertà. Le oasi, negativo d’una macchia tumorale in un corpo sano, pur nel loro contraddittorio significato, non riescono a mostrarci l’effigie di un’Istituzione malata al punto da crepare. Anzi ci mostrano il corpo sano e resistente di un’Istituzione che si può, a buon Diritto, permettere di contenere le persone fino alla morte e perfino di gridare che la libertà è terapeutica. Che la terapeuticità della libertà, dove di libertà non si può parlare, sia retorica spacconeria oltre che scarsa considerazione dei livelli sempre più intensi di autoritarismo, è cosa troppo evidente, specie da parte di chi in mano alla Psichiatria della libertà ci ha perso la vita. Ma è in una tale conclusione da conto in banca che sta la fonte di tutti i mali delle democratiche Istituzioni, diversamente totali, della contenzione? Certo che no. È che, al di là di quella conclusione dal sapore più che garibaldino, troviamo la filosofia e la pratica del riformismo – una delle più temibili forme dell’autoritarismo – che niente possono avere a che spartire con la libertà né tantomeno con il suo potenziale terapeutico. Proprio quel riformismo, ingannevole promessa d’un dolce e graduale approssimarsi alla libertà, che, da una riforma all’altra, pur nella mutazione, ha lasciato liberi gli aspetti più autoritari della Psichiatria di sempre. Compresa la pratica della contenzione che, ancora nella democratica e libera Salute Mentale, si manifesta in diverse e numerose forme, non ultimo come contenzione fisica e meccanica.
Osservazioni, opinioni fuori moda, le nostre. Incompatibili! Immorali; non etiche, non deontologiche. Incivili, non democratiche. Non libertarie. Al di fuori di ogni Diritto e di ogni filosofia del Diritto. Se più vi piace, folli e più che folli.
È evidente che i mal-trattamenti da cronaca nera che, magari incominciati con un TSO, si protraggono con diverse forme di contenzione fino alla morte, dopo giorni di abbandono alle corde su un letto bagnato di piscio e sangue e inzuppato di merda, non stanno sfiorando l’attenzione di nessuno… nemmeno dell’Etica che, nei suoi codici, continua bellamente a prevedere la contenzione.
Potremmo non dire una parola. Potremmo tacere. Senza per questo vedere sciogliersi da sole le corde e dileguarsi le catene. Potremmo prosciugare le nostre acque spese in sudore e sputare sangue fino all’anemia della morte senza per questo convincerne uno sulla vergogna del contenere l’individuo. La vergogna si vive, non si racconta. Potremmo rivolgerci al Diritto e ai suoi cultori senza per questo sopravvivere alla contenzione come è successo a Giuseppe Casu e Francesco Mastrogiovanni che alla Salute Mentale non avevano chiesto nemmeno aiuto: sui loro corpi hanno prima realizzato una contenzione sociale, poi una contenzione ambientale, quindi una contenzione fisica meccanica… per finire in una contenzione chimica psicofarmacologica? No. Non avevano ancora finito. Per finire nella contenzione d’una bara. Hanno molto più semplicemente contenuto le loro membra fino alla morte. Ma questo volevano? Sì; proprio questo. L’hanno perfino teorizzato. Per la contenzione non hanno guardato né prezzo né interessi.
Dopotutto, ogni rivolta, collettiva, di gruppo o individuale che sia, non è l’atto di follia di chi, dopo una notte insonne, arma la sua mano cieca.
Ai “sopravvissuti”, ai “pazienti”, agli “utenti”, alle famiglie, agli psichiatri e agli anti-psichiatri d’ogni tipo, ai riformisti sfegatati vecchi e dell’ultim’ora, ai cantanti della malattia e della terapia, a tutti gli operatori sanitari, al mondo intero: col Diritto non ce la facciamo.
La forza di quelle oasi va trovata oltre il Diritto e suo malgrado; nelle persone che si sono spinte in una relazionalità empatica incompatibile con ogni forma di Diritto che è sempre Diritto del più forte.
Chiudere la persona in un reparto psichiatrico, rinchiuderla in una contenzione psicofarmacologica, legarla a letto. Questo hanno fatto e, quasi routine, è questo quello che fanno. Sconcerta l’arzigolico ballo della critica alla contenzione.
Dividi et impera, hanno posto una trappola alla nostra mente differenziando tra la contenzione del Carcere e quella della Salute Mentale. Nel dossier tutti i critici della contenzione non vogliono criticare tutta la contenzione, indistintamente; non criticano quella del carcere che sentono come giusta; sono critici di quella della Salute Mentale che solo per certi aspetti trovano ingiusta ma non al punto da rifiutarla totalmente.
Nessun digiuno sarebbe sopportabile. Nessuno digiunerebbe, cosciente che, in quella prospettiva, i Governi a cui i digiuni sono oggi dedicati, li spingerebbero, senza dubbio né esitazione alcuna, fino alla morte. Ma quella è un’altra cosa: è la lotta nella dichiarata prospettiva di una vita senza nessuna forma di contenzione, senza né Carcere né Manicomio. Lotta contro tutti i metodi dell’autoritarismo, quindi anche contro il riformismo.
Le premesse e le promesse di ogni riforma psichiatrica non sono mancate; quella del 1904, quella del 1978. I riformatori si sono sempre lasciati uno spiraglio per la pratica della contenzione giornaliera. Quello spiraglio che ha fatto sì che, ancora oggi, anche in Salute Mentale, si praticasse l’aberrante terapia della contenzione nonostante i riformatori siano tutti contro la contenzione.
Un’accezione, una delle tante, il verbo “contenere” ce l’ha. Ignorata. Non c’è tempo né denaro. Di tutt’altra natura, in tutt’altra prospettiva, in tutt’altra relazionalità, in tutt’altra logica. In una metodologia che nulla può avere a che vedere con l’Istituzione, con l’autoritarismo, con lo Stato.
Il nuovo Manicomio, come il vecchio, si fonda sull’eccezione. Su quell’accezione e quell’eccezione che tutti i riformatori, promettendo d’annullare, hanno da sempre conservato. La contenzione fino ad ora è stata solo riformata per meglio contenere. Fino a divenire contenzione con scienza e coscienza. Fino a giustificarsi e rivendicarsi quale apprezzabile pratica da incardinarsi nel percorso terapeutico. Al di là delle sbarre ferrate, questa continua dentro i reparti blindati, dentro le camicie di forza psicofarmacologiche, dentro i lacci e le corde che legano la gente nel letto dei reparti della Salute Mentale fino alla morte. C’è ancora un’altra contenzione: ogni segno della manicomializzazione viene riletto e diagnosticato come sintomo della “malattia” che galoppa; ogni denuncia della contenzione diventa il segno della necessità della contenzione. Anche quella dei morti nei reparti della Salute Mentale.
Siamo lontani. Troppo lontani, non solo dalla libertà ma perfino dalla più labile fiammella della libertà. Potrebbe esserlo ma l’attuale Istituzione della Salute Mentale è lontana da ogni pur minima tensione verso la libertà. Le oasi, negativo d’una macchia tumorale in un corpo sano, pur nel loro contraddittorio significato, non riescono a mostrarci l’effigie di un’Istituzione malata al punto da crepare. Anzi ci mostrano il corpo sano e resistente di un’Istituzione che si può, a buon Diritto, permettere di contenere le persone fino alla morte e perfino di gridare che la libertà è terapeutica. Che la terapeuticità della libertà, dove di libertà non si può parlare, sia retorica spacconeria oltre che scarsa considerazione dei livelli sempre più intensi di autoritarismo, è cosa troppo evidente, specie da parte di chi in mano alla Psichiatria della libertà ci ha perso la vita. Ma è in una tale conclusione da conto in banca che sta la fonte di tutti i mali delle democratiche Istituzioni, diversamente totali, della contenzione? Certo che no. È che, al di là di quella conclusione dal sapore più che garibaldino, troviamo la filosofia e la pratica del riformismo – una delle più temibili forme dell’autoritarismo – che niente possono avere a che spartire con la libertà né tantomeno con il suo potenziale terapeutico. Proprio quel riformismo, ingannevole promessa d’un dolce e graduale approssimarsi alla libertà, che, da una riforma all’altra, pur nella mutazione, ha lasciato liberi gli aspetti più autoritari della Psichiatria di sempre. Compresa la pratica della contenzione che, ancora nella democratica e libera Salute Mentale, si manifesta in diverse e numerose forme, non ultimo come contenzione fisica e meccanica.
Osservazioni, opinioni fuori moda, le nostre. Incompatibili! Immorali; non etiche, non deontologiche. Incivili, non democratiche. Non libertarie. Al di fuori di ogni Diritto e di ogni filosofia del Diritto. Se più vi piace, folli e più che folli.
È evidente che i mal-trattamenti da cronaca nera che, magari incominciati con un TSO, si protraggono con diverse forme di contenzione fino alla morte, dopo giorni di abbandono alle corde su un letto bagnato di piscio e sangue e inzuppato di merda, non stanno sfiorando l’attenzione di nessuno… nemmeno dell’Etica che, nei suoi codici, continua bellamente a prevedere la contenzione.
Potremmo non dire una parola. Potremmo tacere. Senza per questo vedere sciogliersi da sole le corde e dileguarsi le catene. Potremmo prosciugare le nostre acque spese in sudore e sputare sangue fino all’anemia della morte senza per questo convincerne uno sulla vergogna del contenere l’individuo. La vergogna si vive, non si racconta. Potremmo rivolgerci al Diritto e ai suoi cultori senza per questo sopravvivere alla contenzione come è successo a Giuseppe Casu e Francesco Mastrogiovanni che alla Salute Mentale non avevano chiesto nemmeno aiuto: sui loro corpi hanno prima realizzato una contenzione sociale, poi una contenzione ambientale, quindi una contenzione fisica meccanica… per finire in una contenzione chimica psicofarmacologica? No. Non avevano ancora finito. Per finire nella contenzione d’una bara. Hanno molto più semplicemente contenuto le loro membra fino alla morte. Ma questo volevano? Sì; proprio questo. L’hanno perfino teorizzato. Per la contenzione non hanno guardato né prezzo né interessi.
Dopotutto, ogni rivolta, collettiva, di gruppo o individuale che sia, non è l’atto di follia di chi, dopo una notte insonne, arma la sua mano cieca.
Ai “sopravvissuti”, ai “pazienti”, agli “utenti”, alle famiglie, agli psichiatri e agli anti-psichiatri d’ogni tipo, ai riformisti sfegatati vecchi e dell’ultim’ora, ai cantanti della malattia e della terapia, a tutti gli operatori sanitari, al mondo intero: col Diritto non ce la facciamo.
La forza di quelle oasi va trovata oltre il Diritto e suo malgrado; nelle persone che si sono spinte in una relazionalità empatica incompatibile con ogni forma di Diritto che è sempre Diritto del più forte.
Chiudere la persona in un reparto psichiatrico, rinchiuderla in una contenzione psicofarmacologica, legarla a letto. Questo hanno fatto e, quasi routine, è questo quello che fanno. Sconcerta l’arzigolico ballo della critica alla contenzione.
Dividi et impera, hanno posto una trappola alla nostra mente differenziando tra la contenzione del Carcere e quella della Salute Mentale. Nel dossier tutti i critici della contenzione non vogliono criticare tutta la contenzione, indistintamente; non criticano quella del carcere che sentono come giusta; sono critici di quella della Salute Mentale che solo per certi aspetti trovano ingiusta ma non al punto da rifiutarla totalmente.
Nessun digiuno sarebbe sopportabile. Nessuno digiunerebbe, cosciente che, in quella prospettiva, i Governi a cui i digiuni sono oggi dedicati, li spingerebbero, senza dubbio né esitazione alcuna, fino alla morte. Ma quella è un’altra cosa: è la lotta nella dichiarata prospettiva di una vita senza nessuna forma di contenzione, senza né Carcere né Manicomio. Lotta contro tutti i metodi dell’autoritarismo, quindi anche contro il riformismo.
Le premesse e le promesse di ogni riforma psichiatrica non sono mancate; quella del 1904, quella del 1978. I riformatori si sono sempre lasciati uno spiraglio per la pratica della contenzione giornaliera. Quello spiraglio che ha fatto sì che, ancora oggi, anche in Salute Mentale, si praticasse l’aberrante terapia della contenzione nonostante i riformatori siano tutti contro la contenzione.
Un’accezione, una delle tante, il verbo “contenere” ce l’ha. Ignorata. Non c’è tempo né denaro. Di tutt’altra natura, in tutt’altra prospettiva, in tutt’altra relazionalità, in tutt’altra logica. In una metodologia che nulla può avere a che vedere con l’Istituzione, con l’autoritarismo, con lo Stato.
Il nuovo Manicomio, come il vecchio, si fonda sull’eccezione. Su quell’accezione e quell’eccezione che tutti i riformatori, promettendo d’annullare, hanno da sempre conservato. La contenzione fino ad ora è stata solo riformata per meglio contenere. Fino a divenire contenzione con scienza e coscienza. Fino a giustificarsi e rivendicarsi quale apprezzabile pratica da incardinarsi nel percorso terapeutico. Al di là delle sbarre ferrate, questa continua dentro i reparti blindati, dentro le camicie di forza psicofarmacologiche, dentro i lacci e le corde che legano la gente nel letto dei reparti della Salute Mentale fino alla morte. C’è ancora un’altra contenzione: ogni segno della manicomializzazione viene riletto e diagnosticato come sintomo della “malattia” che galoppa; ogni denuncia della contenzione diventa il segno della necessità della contenzione. Anche quella dei morti nei reparti della Salute Mentale.
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