Di Manlio Dinucci
C'è una società multinazionale che, nonostante la crisi, lavora a più non posso. Si occupa di demolizioni e restauri. Non di edifici, ma di interi stati. La casa madre è a Washington, dove nella White House risiede il Chief executive officer (Ceo), l'amministrazione delegato. I principali quartieri generali regionali si trovano a Parigi e Londra, sotto rampanti direttori e avidi comitati d'affari, ma la multinazionale ha filiali in tutti i continenti. Gli stati da demolire sono quelli situati nelle aree ricche di petrolio o con una importante posizione geostrategica, ma che sono del tutto o in parte fuori del controllo della multinazionale. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori. L'operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni stato ha. Nella Federazione jugoslava, negli anni '90, vennero fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si opponevano al governo di Belgrado. In Libia, oggi, si sostengono e si armano i settori tribali ostili al governo di Tripoli. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi dirigenti, spesso formati da politici passati all'opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere. Si chiede quindi l'autorizzazione dell'ufficio competente, il Consiglio di sicurezza dell'Onu, motivando l'intervento con la necessità di sfrattare il dittatore che occupa i piani alti (ieri Milosevic, oggi Gheddafi). Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Jugoslavia), si procede lo stesso. La squadra dei demolitori, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all'interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo. Intanto l'ufficio pubblicitario della multinazionale conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio dal feroce dittatore. Completata la demolizione, si procede alla costruzione di un nuovo stato (come in Iraq e Afghanistan) o di un insieme di staterelli (come nella ex Jugoslavia) in mano ad amministratori fidati. L'altro importante settore della multinazionale è quello del restauro di stati pericolanti. Come l'Egitto e la Tunisia, lo Yemen e il Bahrain, le cui fondamenta sono state scosse dal movimento popolare che ha defenestrato o messo in difficoltà i regimi garanti degli interessi delle potenze occidentali. Secondo la direttiva del Ceo di assicurare una ordinata e pacifica transizione, il restauro viene effettuato consolidando anzitutto il pilastro su cui già poggiava il potere - la struttura portante delle forze armate - ridipingendolo con i colori arcobaleno della democrazia. Si restaurano così gli stati colpiti dal terremoto sociale, su cui la multinazionale fonda la sua influenza in Nordafrica e Medio Oriente, e allo stesso tempo, provocando una scossa artificiale, se ne demolisce uno relativamente indipendente. Già alla casa madre brindano allo scongiurato pericolo della rivoluzione araba. Ma in profondità, nelle società arabe, crescono le tensioni che preparano un nuovo sisma sotto le fondamenta del palazzo imperiale.
Fonte:Il Manifesto del 30/08/2011
Da Essere Comunisti
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