Di Massimo Ragnedda.
In questi giorni di crisi, rischi default, crisi delle banche e della borsa, speculazioni finanziarie, mi viene in mente un classico oggetto di studio della sociologia: il controllo sociale. È grazie ad esso che il cittadino tende ad accettare e ad assorbire i valori che conferiscono stabilità e coerenza all’ordine sociale, riducendo così le potenzialità di deviare. Tranne l’Islanda, dove la crisi è stata pagata dalle banche e dai grossi speculatori finanziari, ovunque nel mondo la crisi viene pagata dalle famiglie, dai lavoratori, dal ceto medio. Le banche non pagano e i grossi speculatori neppure.
Eppure. Eppure spetterebbe a loro pagare la crisi per almeno due ragioni: la prima è che sono loro ad averla creata e la seconda è che hanno più risorse ed è giusto che siano a loro a contribuire più degli altri. Ma niente da fare: la crisi la paghiamo noi. Perché? Come spesso accade, le domande più semplici sono anche le più complesse a cui rispondere, ed io qui tento una breve, anche se non esaustiva, risposta.La nuova èlite transnazionale ha un dominio incontrastato e versa in una situazione di assoluto privilegio grazie al potere e al controllo sociale che riesce ad esercitare a livello globale. Secondo Bourdieu alla sociologia è affidato un compito politico ben preciso, ovvero “defatalizzare il mondo”. Deve, cioè, porsi come obiettivo primario quello di mostrare/svelare il carattere storico e artificiale dei dispositivi di dominio che presuppongono, per il loro stesso funzionamento, il fatto di essere percepiti dai dominati come fatti naturali. Provare a svelare questi dispositivi è quanto, in queste pagine, cerco di fare.
Partiamo da lontano: ogni società, comunità o aggregazione di individui, si è sempre dotata di un meccanismo di controllo sociale che operasse nella direzione di dare uniformità e coerenza al comportamento dei singoli membri del gruppo. È evidente che ogni gruppo umano, con le proprie peculiarità, elaborerà, direttamente o indirettamente, forme e mezzi di controllo sociale in relazione alle proprie strutture e caratteristiche e in riferimento al contesto storico culturale in cui è inserito. Tanto più complesso e articolato sarà il corpo sociale a cui dare uniformità tanto più strutturata e trasversale sarà l’azione di controllo sociale.
Da forme primordiali di controllo sociale basate essenzialmente sui sentimenti naturali degli uomini, si arriva ad un’istituzione complessa e neutrale quale lo Stato nazione. Frutto e al contempo base della modernità, lo Stato nazione è una delle più complesse forme di organizzazione sociale, nato dalla summa e dalla mediazione di istanze diverse con l’obiettivo di codificare le norme e le condotte dei singoli individui, cercando di prevenire il più possibile le azioni e i comportamenti devianti e dando alla moltitudine un codice comportamentale di riferimento.
Ora lo Stato nazione perde importanza e potere rispetto all’èlite transnazionale che avanza. Lo Stato non è più in grado di imporsi e tutelare i propri cittadini, ma è spesso al servizio della nuova èlite transnazionale, recependone le indicazioni o dicktat. Gli Stati Uniti di Obama, ad esempio, hanno appena deciso, per scongiurare il rischio default, di apportare tagli alla spesa pubblica per 2.500 miliardi, ovvero hanno deciso (ma si può parlare di decisione o sarebbe più corretto parlare di imposizione?) di far pagare la crisi ai poveri e non ai super ricchi membri della nuova èlite transnazionale.
Ma perché parlare di controllo sociale ora e cosa esattamente significa? Tomeo alla voce “controllo”, in Gli strumenti del sapere contemporaneo, parla di quell’insieme di processi e di istituzioni sociali con i quali il sistema sociale e i gruppi che ne fanno parte influenzano o costringono la condotta dei soggetti individuali o collettivi verso la conformità alle norme o alle regole dominanti della collettività. E le regole della collettività, aggiungo io, sono imposti dall’èlite transnazionale.
Il controllo sociale dunque può essere letto, e chi scrive così lo legge, in termini di dominio di una élite sulla moltitudine. Una parte della sociologia, in particolare quella statunitense di inizio Novecento (penso a Ross in particolar modo) concepiva il controllo sociale come esercitato da un gruppo ristretto per conto della collettività. Io credo, invece, che il controllo sociale operi a favore di un gruppo sociale ristretto e non a vantaggio della collettività.
La nuova èlite transnazionale detiene gli strumenti tecnici, e spesso anche intellettuali, per governare l’immaginario collettivo; la nuova èlite non ha patria, si muove lontano dalle telecamere ed opera dietro le quinte, ma impone i suoi dicktat agli stati sovrani. E lo fa attraverso tutto in insieme di mezzi, ma in particolar modo attraverso due: la dottrina neoliberale e i mass media. Molto brevemente mi soffermo sulla dottrina neoliberale.
Ogni epoca è pervasa da grandi idee collettive che attraversano la società in ogni suo dove. L’ideologia dominante nella postmodernità è il neoliberismo e la relativa fede assoluta che l’umanità sembra riporre nel Dio mercato. La dottrina neoliberale pervade la vita pubblica e privata della società occidentale influenzando, in maniera trasversale, il comportamento della moltitudine, ma anche delle sue istituzioni. Tale nuova fede secolarizzata si pone come formidabile mezzo di controllo sociale.
Chi non si adegua al mercato è perso ed escluso. La cosa vale per individui e società, vale cioè nel micro come nel macro, poiché in tempi di fondamentalismo planetario non credere al Dio di riferimento significa emarginazione e ritorsione. Come tutte le religioni, anche il neoliberismo per osannare il suo Dio (mercato) ha bisogno di profeti (economisti), luoghi di culto (istituzioni internazionali), predicatori (esperti/giornalisti/opinionisti/politici), palpiti da cui far sentire la preghiera quotidiana (i mass media) e infine i suoi fedeli e pellegrini (l’opinione pubblica) da indottrinare e “controllare”. E lo Stato, un tempo baluardo a difesa dei cittadini, ora è a difesa dell’èlite dominante. O meglio ne è vittima e mezzo.
Ecco perché la crisi la paghiamo noi: perché la fede dominante nel nostro periodo è quella del neoliberismo, del potere del mercato, della Borsa, delle operazioni finanziarie. La crisi la paghiamo noi perché lo Stato è debole e non può schierarsi contro l’èlite transnazionale ed è accecata dalla fede nel mercato. Quella fede porta vantaggio ad un ristrettissimo numero di persone nel mondo, ma per funzionare ha necessità, come diceva Bourdieu, di essere percepita dai dominati, ovvero da tutti noi, come un fatto naturale. Ma naturale non lo è affatto.
Da Megachip
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