Anche i referti medici testimoniano il ruolo fondamentale dei giornalisti in quel G8. Grazie a immagini e reportage le violenze non furono archiviate.
Foto di http://prono.provincia.genova.it
Anche contro l’informazione, a Genova, viene messo in atto un trattamento sporco e pesantissimo. Che sarà sporco lo si capisce già quando a Paolo Serventi Longhi - all’epoca Segretario Generale della Fnsi, il sindacato dei giornalisti - arriva dalle forze “dell’ordine” la richiesta di avere in dotazione pettorine-stampa. La sua risposta negativa, netta ed ovvia, non vale ad evitare che persone non identificate, ma di certo non giornalisti, circolino indossando pettorine gialle con la scritta “press”, in tutto simili a quelle predisposte dall’Ordine e dall’Associazione Stampa della Liguria per i 1200 colleghi accreditati da tutto il mondo. Che il trattamento sia durissimo, in senso letterale, lo testimoniano le violenze subite negli scontri di piazza ad opera di manifestanti da almeno una trentina di reporter, fotografi, telecineoperatori; i pestaggi anche ai danni di giornalisti dentro la Diaz e durante la devastazione del Centro Stampa del Genoa Social Forum; i cinque fermi attuati con abusi di vario tipo ai danni di colleghi italiani e stranieri (una giornalista tedesca, di fatto sequestrata, riuscirà a prendere contatto con le autorità del suo paese solo dopo quattro giorni). I rappresentanti dei giornalisti sono i primi a presentare in Procura una denuncia documentata, e negli anni successivi il sindacato si costituirà parte civile nei processi sia contro i manifestanti violenti che contro le forze di polizia responsabili degli orrori della Diaz.
Non dovrebbe esserci bisogno di questi attestati, ma persino i referti medici testimoniano a loro modo che l’informazione, a Genova, ha saputo fare il suo lavoro. La pagina del luglio 2001 rimane una delle più convincenti del recente giornalismo italiano. Nelle settimane che precedono il G8, a dire il vero, non ha fatto granché per spiegare i temi che lì verranno discussi: la critica al modello di sviluppo occidentale, i diversi possibili tipi di globalizzazione, il rapporto tra Nord e Sud del mondo sono temi considerati troppo noiosi, da addetti ai lavori; “non c’è notizia”, secondo la pigra scala professionale dominante. Ma a Genova, nel fuoco degli scontri, di fronte al tentativo scoperto di attaccare alcuni diritti costituzionali, il giornalismo italiano trova le parole e le immagini per restituire la gravità di quello che sta accadendo. E impedisce che le tentazioni autoritarie, l’attività deviata di alcuni apparati dello Stato, possano giovarsi del nostro silenzio complice.
Una vicenda, tra tante altre, racconta di questa passione civile e professionale per la verità, che stavolta riesce ad essere più forte delle censure e delle autocensure. E’ la storia del servizio che il Tg1 delle 20 (diretto da Albino Longhi) manda in onda tre giorni dopo la fine del vertice. A firmarlo è Bruno Luverà, che non mette una sola parola di commento ad una impressionante sequenza di immagini: immagini arrivate dal Tg2, grazie ad un montatore che le ha viste, ne ha compreso lo straordinario valore, e non si rassegna al fatto che l’inviato e il telecineoperatore che per la testata diretta da Mimun le hanno girate le abbiano frettolosamente riposte in un cassetto. Dopo quel servizio, le voci di Saxa Rubra dicono arrivi una telefonata da Carlo Azeglio Ciampi, che parla della commozione e della rabbia sue e della signora Franca. Subito dopo, il Presidente della Repubblica chiederà la verità. Le violenze non potranno essere archiviate tanto in fretta.
Ma Genova è anche la prima, grande dimostrazione italiana dell’efficacia di quelli che nel 2001 ancora chiamiamo “nuovi media”. D’ora in poi sarà chiaro che su ogni avvenimento pubblico avremo decine, centinaia di testimonianze: videocamere e telefonini potranno sempre aggiungere un punto di osservazione, un particolare forse decisivo. Visti da Genova, i rischi di un orwelliano “grande fratello” che spia ogni attimo della nostra vita sembrano assai meno rilevanti del valore che per la vita della società e per la tenuta della democrazia ha questa rete diffusa di media-attivismo, professionale o no che sia. Un antidoto potente e benefico al populismo mediatico che purtroppo dopo il G8 del 2001 investirà pesantemente l’informazione italiana. Non è una coincidenza se, dieci anni dopo, oggi che quel populismo mostra segni di logoramento, fra le cause della sua crisi c’è Internet con la sua vorticosa circolazione di informazioni. E non è una coincidenza se tornano in evidenza insieme certi media e certi contenuti, come i referendum dimostrano: i beni comuni, di cui a Genova non si riuscì a parlare sotto i colpi dei manganelli e le violenze dei black bloc, hanno lavorato in rete e anche lì hanno costruito consenso. Come quelle indimenticabili e pacifiche mani tinte di bianco, che hanno retto ai pestaggi di dieci anni fa e che nel voto sull’acqua pubblica si sono prese la rivincita.
Non dovrebbe esserci bisogno di questi attestati, ma persino i referti medici testimoniano a loro modo che l’informazione, a Genova, ha saputo fare il suo lavoro. La pagina del luglio 2001 rimane una delle più convincenti del recente giornalismo italiano. Nelle settimane che precedono il G8, a dire il vero, non ha fatto granché per spiegare i temi che lì verranno discussi: la critica al modello di sviluppo occidentale, i diversi possibili tipi di globalizzazione, il rapporto tra Nord e Sud del mondo sono temi considerati troppo noiosi, da addetti ai lavori; “non c’è notizia”, secondo la pigra scala professionale dominante. Ma a Genova, nel fuoco degli scontri, di fronte al tentativo scoperto di attaccare alcuni diritti costituzionali, il giornalismo italiano trova le parole e le immagini per restituire la gravità di quello che sta accadendo. E impedisce che le tentazioni autoritarie, l’attività deviata di alcuni apparati dello Stato, possano giovarsi del nostro silenzio complice.
Una vicenda, tra tante altre, racconta di questa passione civile e professionale per la verità, che stavolta riesce ad essere più forte delle censure e delle autocensure. E’ la storia del servizio che il Tg1 delle 20 (diretto da Albino Longhi) manda in onda tre giorni dopo la fine del vertice. A firmarlo è Bruno Luverà, che non mette una sola parola di commento ad una impressionante sequenza di immagini: immagini arrivate dal Tg2, grazie ad un montatore che le ha viste, ne ha compreso lo straordinario valore, e non si rassegna al fatto che l’inviato e il telecineoperatore che per la testata diretta da Mimun le hanno girate le abbiano frettolosamente riposte in un cassetto. Dopo quel servizio, le voci di Saxa Rubra dicono arrivi una telefonata da Carlo Azeglio Ciampi, che parla della commozione e della rabbia sue e della signora Franca. Subito dopo, il Presidente della Repubblica chiederà la verità. Le violenze non potranno essere archiviate tanto in fretta.
Ma Genova è anche la prima, grande dimostrazione italiana dell’efficacia di quelli che nel 2001 ancora chiamiamo “nuovi media”. D’ora in poi sarà chiaro che su ogni avvenimento pubblico avremo decine, centinaia di testimonianze: videocamere e telefonini potranno sempre aggiungere un punto di osservazione, un particolare forse decisivo. Visti da Genova, i rischi di un orwelliano “grande fratello” che spia ogni attimo della nostra vita sembrano assai meno rilevanti del valore che per la vita della società e per la tenuta della democrazia ha questa rete diffusa di media-attivismo, professionale o no che sia. Un antidoto potente e benefico al populismo mediatico che purtroppo dopo il G8 del 2001 investirà pesantemente l’informazione italiana. Non è una coincidenza se, dieci anni dopo, oggi che quel populismo mostra segni di logoramento, fra le cause della sua crisi c’è Internet con la sua vorticosa circolazione di informazioni. E non è una coincidenza se tornano in evidenza insieme certi media e certi contenuti, come i referendum dimostrano: i beni comuni, di cui a Genova non si riuscì a parlare sotto i colpi dei manganelli e le violenze dei black bloc, hanno lavorato in rete e anche lì hanno costruito consenso. Come quelle indimenticabili e pacifiche mani tinte di bianco, che hanno retto ai pestaggi di dieci anni fa e che nel voto sull’acqua pubblica si sono prese la rivincita.
Articolo di Roberto Natale, Presidente Fnsi
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